Come ai tempi non tanto lontani del governo tecnico di Mario Monti, che all’epoca fu accolto (anche) in Finlandia con sincero entusiasmo, anche stavolta la comparsa sulla scena politica italiana di una persona di grandi competenze, in fondo anche lui un “tecnico”, sembra alimentare nel Paese nordico qualche speranza. Ma stavolta sono di più le preoccupazioni.
A riprova, accanto a una serie di servizi quotidianamente aggiornati, sul sito della televisione di stato finlandese è uscita un’intervista a due docenti di economia, Giacomo Calzolari e Andrea Mattozzi, che insegnano all’Istituto universitario europeo (EUI) di Firenze. L’articolo riporta le preoccupazioni dei due economisti, e al tempo stesso evidenzia l’interesse speciale dei media finlandesi per il rischio che si cela dietro la crisi politica ed economia italiana. Anche per il resto del continente.
Nell’intervista Calzolari e Mattozzi sostengono che Mario Draghi, nominato nuovo primo ministro, deve riuscire nell’impresa di portare il Paese fuori da un’impasse politica in pochi giorni.
“Un fallimento può significare per lui un harakiri politico”, così i due studiosi. Sebbene sia bastata la semplice nomina di Draghi a smorzare le tensioni tra le parti, i rischi di crisi sono alti. Il blocco di destra populista di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia di Berlusconi stanno ancora valutando la loro posizione in rapporto a Draghi.
“Draghi deve riuscire a metere in piedi un programma politico e trascinarlo in acque tempestose. Tra l’altro Pd, Lega e Movimento Cinque Stelle sono su linee completamente diverse in termini di priorità”, così Calzolari e Mattozzi descrivono la difficile situazione.
Il successo di Draghi è importante non solo per il futuro dell’Italia ma anche per l’Europa nel suo complesso: se fallisce, la credibilità dell’intero pacchetto per la ripresa economica crollerà. Il pacchetto rappresenta il tentativo più ambizioso da parte dell’UE di impegnarsi nella cooperazione economica sin dalla creazione della moneta unica, l’euro, all’inizio del millennio.
L’UE ha investito una quantità di valuta senza precedenti: 750 miliardi di euro per sostenere la ripresa degli Stati membri e le misure di sostegno della Banca centrale europea sui mercati monetari. L’Italia riceve la fetta più grande del pacchetto, circa 200 miliardi di euro. Tuttavia, in relazione al PIL, è solo un “beneficiario medio”. In proporzione alle dimensioni dell’economia, è la Croazia a riceve la quota maggiore delle sovvenzioni.
Entro la fine di aprile l’Italia dovrà presentare il proprio piano per l’utilizzo degli aiuti comunitari e ottenere l’approvazione della Commissione. Se non riesce a presentare progetti economici credibili, il paese rimarrà senza sussidi nel primo round di stanziamenti.
Draghi ha un enorme lavoro da fare per trovare il modo di rilanciare l’economia. Dovrebbe portare a termine riforme politicamente difficili, ad esempio, nel settore giudiziario e nell’economia, che di fatto non cresce da 20 anni. Finora l’Italia ha fallito nell’utilizzo dei sussidi UE rispetto ad altri paesi dell’Unione. La ragione principale è il peso soverchiante della burocrazia che Draghi dovrebbe quindi ridimensionare a breve termine se l’Italia vuole sfruttare efficacemente i finanziamenti comunitari.
“L’Italia ha un disperato bisogno di riforme da decenni. Migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione è una priorità urgente”, affermano Calzolari e Mattozzi.
I due economisti sono profondamente preoccupati per le prospettive del paese.
“L’Italia è a un bivio e i paesi europei dovrebbero capirlo”, dicono. Secondo loro, sarebbe un disastro se Draghi governasse solo per un breve periodo. Se, invece, gli fosse permesso di realizzare un programma e di impegnarsi a farlo funzionare insieme all’UE, le prospettive potrebbero essere migliori. “Se rimane ed è in grado di attuare anche una parte del suo programma, l’Italia potrebbe presto mostrarsi come un paese completamente diverso e la sua spirale discendente arrestarsi”.
I mercati, per lo meno, hanno accolto Draghi positivamente. Lo spread, cioè la differenza tra quanto rende un titolo di Stato decennale italiano e l’equivalente tedesco, che misura il “rischio Italia” percepito, è scivolato intorno a 100, un livello non si vedeva dalla fine del 2015.
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