L’acquario dell’amore è il terzo romanzo della scrittrice e attrice finlandese Anna-Leena Härkönen; racconta la storia di una giovane coppia che vive una relazione felice, se non fosse per un piccolo particolare: la ragazza non riesce a raggiungere il piacere. I problemi che ne derivano raggiungono una conclusione sorprendente. Questa “confessione di una figlia della rivoluzione sessuale” è di particolare interesse per la particolare visione distaccata degli eventi tragicomici di cui la storia è costellata.
Anna-Leena Härkönen nasce nel 1965 a Liminka. Dopo aver studiato alla scuola di Arti teatrali, nel 1989 si laurea all’Università di Scienze teatrali di Tampere. Tra le sue opere possiamo ricordare Häräntappoase (1984, Come uccidere un toro) vincitore del premio J. H. Erkko per l’opera prima, e adattato per la televisione ed il teatro, Akvaariorakkautta (1990) e Avoimien ovien päivä (1998, La giornata delle porte aperte)
“Akvaariorakkautta“
Otava, 1990, pp. 190
Mi svegliai in una stanza grande e luminosa, con la luce che mi trafiggeva gli occhi penetrando fin dentro la testa, dove riecheggiavano le fitte di dolore. Chiusi un attimo gli occhi, li riaprii.
Al centro di quel bagliore scorsi un vecchio pianoforte nero. E un uomo sdraiato accanto a me.
Dormiva ancora, a pancia in giù, la bocca semi aperta. L’orologio alla parete segnava le sette e mezzo.
Avevo sete. Mi passai la lingua impastata sulle gengive, alzandomi con cautela.
Nello specchio rotto del bagno scorsi due borse nere sotto gli occhi: sembravo un opossum.
Bevvi mezzo litro d’acqua, mi appoggiai al lavandino, e mi concentrai provandomi a trattenerla dentro. Mi sentivo male.
Arrivata alla porta, mi fermai per osservare meglio l’uomo steso sul materasso. In effetti, non sapevo se fosse un uomo o piuttosto un ragazzo. Le guance erano infossate e pallide, i capelli, qua e là luccicanti di un gel appiccicaticcio, dello stesso colore delle sedie in rattan del negozio dei ciechi.
Teneva una mano sotto il cuscino, l’altra sulla coperta, lasciando così intravedere le unghie limate con cura, a mezzaluna.
Dormiva con una composta tranquillità, tanto che non si sentiva nemmeno il respiro.
Smisi di sbirciare.
Mi avvicinai furtivamente allo scaffale di libri che copriva l’intera parete. Meri.Kundera. Vonnegut. Liksom. Emmanuelle 2. Scienza dell’informazione. Okkei.
“Ciao.”
Mi voltai facendo cadere un libro.
“Ciao!”
Era immobile nella stessa identica posizione, con la mano sotto il cuscino, ma gli occhi aperti. Erano grigi.
Mi chinai a raccogliere il libro per rimetterlo sullo scaffale e mi girai di nuovo.
Alzò la testa, si appoggiò sul gomito e sorrise un po’. Poi vomitò.
Tremava tutto, cercò di tenere la mano davanti alla bocca e di alzarsi, ma senza successo. Lo guardai per un po’ finché non corsi in bagno e vomitai a mia volta.
Misi un po’ di dentifricio su un batuffolo di cotone che poi passai sui denti, quindi mi sciacquai la bocca.
Quando tornai nella stanza, stava pulendo il pavimento con uno straccio, indosso soltanto dei boxer con l’immagine di Topolina.
“Mi pare che cominciamo bene”, disse, tendendo la mano sinistra.
“Jouni.”
Strinsi la sua mano bagnata.
“Saara.”
“Lo so, ti sei presentata già ieri notte.”
“Mi sono presentata?”
Ritirò la mano e allo stesso tempo lasciò cadere dall’altra lo straccio nel secchio d’acqua.
“Sì. E poi sei crollata.”
“Ah…”
Cercai di ridacchiare; quel mio tentativo lo fece ridere, rivelando la dentatura candida di un piccolo roditore, davvero carina.
Sentii un nuovo giramento. Mi accomodai cautamente sul bordo del materasso. Tutto quello che avevo addosso era una maglietta di cotone comprata all’Esercito della Salvezza e le mutandine.
Mi chiedevo perché non avesse fatto l’amore con me ieri notte. O forse l’aveva fatto, ma ero così intoppata che non me ne sono accorta. Ero naturalmente curiosa di sapere se fosse successo qualcosa.
Avevo lasciato il Wienerwald in sua compagnia. Si era presentato al mio tavolo poco prima della chiusura e quasi subito mi aveva chiesto se volevo andare con lui. L’aveva detto solo per scherzo, ma io lo presi sul serio e risposi di sì. Così uscii attraversando l’intero pub come la signora delle camelie, a testa alta e aggrappata a lui. E questo è tutto ciò che ricordo.
“Lo vuoi del caffè?”, mi chiese.
“No”, risposi.
“Cosa vorresti?”
Ci pensai un po’.
“Andare a letto con te”, sbottai finalmente con disinvoltura.
Gli spuntò un sorriso all’angolo della bocca.
Si sedette accanto a me facendo scorrere la mano tra i miei capelli arruffati. Poi mi si buttò addosso e prese a strofinare il suo bacino contro il mio. Ero come una bambola di pezza indifesa.
Dopo un po’ si sollevò.
“Forse un’altra volta”, disse. Non riuscii a decifrare la sua espressione.
Sorrisi, non so nemmeno il perché, e sentii che mi si arrossavano le guance.
Non succederà mai più.
I miei jeans erano finiti sotto il pianoforte. Me li infilai guardandomi intorno alla ricerca delle scarpe e della borsa. Dalla finestra riuscivo a scorgere un pezzo del parco e il campanile della chiesa. Jouni si accese una sigaretta. Ad un esame più attento, notai che aveva il naso puntellato di lentiggini.
“Devo andare”, gli dissi, non so perché. Non dovevo andare da nessuna parte, avevo il giorno libero.
“Lasciami il tuo numero di telefono”, indicò un blocchetto nell’ingresso. Scarabocchiai il numero e presi il giubbino di pelle marrone dalla sedia.
“Basta che non dici ‘ti chiamo’”, gridai.
“Infatti, non te lo prometto.”
Aprii la porta d’ingresso.
A casa mia, a Pispala, sembrava che la festa della sera prima fosse ancora in corso. La cucina era piena di gente, in salotto suonava la musica dei Miljoonasade. Tentai di sgattaiolare di sopra.
“Ho sentito che ieri sera eri con un tizio. George ti ha vista.”
Irene era in piedi davanti alle scale e strizzò l’occhio curiosa.
“Succede”, la liquidai.
“E com’è andata?”
“Bene.”
Continuai a salire, Irene al seguito. Era una specialista nel vivisezionare ogni tipo di relazione umana, compresa la sua, ma soprattutto quella degli altri.
Mi lasciai cadere sul letto con tutte le scarpe. Irene prese posto in poltrona. Aveva così tanto mascara sulle ciglia che i suoi occhi sembravano due cozze.
“E allora, che altro?”
“Niente. Smettila, ora.”
La porta dello sgabuzzino era aperta. Gli scaffali sembravano reggere a malapena il peso di oggetti e vestiti. Nonostante mi fossi trasferita qui da un mese, non ero ancora riuscita a sistemare ogni cosa.
“È arrivata questa lettera per te”.
Irene me la lanciò. Aspettava che la aprissi, pensava che l’avrei letta ad alta voce. Invece, la infilai sotto il cuscino.
“Ah, be’…”
“Be’ cosa?”
Si alzò stiracchiandosi. Aveva capito che non mi avrebbe cavato nulla.
“Ci sono degli spaghetti, se hai fame.”
“Ah. Non li voglio. Mi ricorderebbe troppo il lavoro”.
“Allora… ci vediamo dopo”.
“Sì.”
Se ne andò. A volte mi dava fastidio vivere in una comune. E oggi era proprio una di quelle volte. Anche se Irene era la persona più interessante di tutta la casa. Veniva dal Nord, come me, studiava da infermiera psichiatrica ed era divorziata. Penso che le persone divorziate abbiano un carisma particolare.
Tirai fuori la lettera e l’aprii.
“Hannele e Osmo Makinen annunciano il loro matrimonio, che si terrà il 15 luglio 1989…”
Gettai la lettera a terra. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse gettato un’imbottita sulla testa.
Hannele. Praticamente la mia più vecchia amica d’infanzia. Quella con cui ho giocato prima alla casa, poi alle Charlie’s Angels, quindi alle madame dei bordelli, grazie alla quale ero passata dai Bay City Rollers ai Teddy and the Tigers. Ogni giorno lavavamo insieme i jeans per renderli più aderenti, scuotevamo la testa in attesa di imbatterci nei nostri futuri mariti. Il nostro ideale era un tipo scuro, careliano e fanatico delle armi, capace di chiamare le cose con il loro vero nome, anche se non il più intelligente, e avevamo un accordo: nessuna di noi sarebbe andato a letto con qualcuno finché non ne avessimo discusso e analizzato la cosa sotto ogni punto di vista.
Poi Hannele, una volta, mi chiama improvvisamente nel cuore della notte e mi dice che è la sua prima volta con un certo Martti, che si è ubriacata di liquore alla menta e cioccolato nel cottage dei suoi genitori, e che ora però non le sembra niente di che. È così che è finita la nostra infanzia.
E ora anche la nostra gioventù. Sentivo di aver varcato la soglia della mezza età.
Dovrei chiamarla e congratularmi con lei. Ma mi sento venir meno al solo pensiero. Inoltre, non mi ha nemmeno chiamata, ma mi ha mandato solo la partecipazione formale.
Mi tolsi i vestiti e mi infilai sotto la coperta con solo la maglietta. Per un attimo portai la manica al viso. Puzzava di fumo e gel per capelli.
Mi resi improvvisamente conto di non aver avuto a che fare con un ragazzo da un anno e mezzo.
(Immagine di copertina da un frammento di H. Schjerfbeck, dalla collezione Gyllenberg. Per tutte le immagini utilizzate, siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)