Anni Sumari (nata a Helsinki nel 1965) è scrittrice e autrice di vari libri di poesie, racconti, romanzi. Ha studiato letteratura e scienze della comunicazione presso l’Università di Helsinki, poi ha lavorato come addetta alle pubbliche relazioni e consulente, prima di dedicarsi al mestiere di scrittrice, traduttrice e artista visuale. Le sue opere sono state tradotte in 24 lingue, tra cui russo, spagnolo, svedese, tedesco, lettone e lituano.
Junanäytelmä (Dramma ferroviario, Like 2001) è un diario di viaggio nel quale l’autrice descrive le sei settimane in treno di 107 scrittori attraverso l’Europa all’inizio del nuovo millennio. Autori come la Sumari (ma anche Rimminen, Hotakainen e altri) riuscirebbero a rendere poetica anche la lista della spesa, ed è questa l’impressione che si ricava dalla lettura di questo ‘romanzo itinerante’. Ad esempio, a pagina 15, troviamo una riflessione sulla scrittura autobiografica, e una certa dose di autoironia:
Helsinki, 16.4.2000
Gli antichi filosofi riflettevano sulla cosiddetta antinomia del mentitore. Se, scrivendo un libro di viaggio, scrivo che sto mentendo, ho detto la verità o una menzogna?
So già che il libro di viaggio conterrà più che altro una verità poetica.
Si suppone che un testo del genere contenga una certa dose di autobiografia, almeno nella misura in cui si è stati nei luoghi di cui si scrive. Secondo Jacques Derrida, è impossibile scrivere un’autobiografia.
In realtà, parlava dell’impossibilità dell’anacronismo: se qualcuno oggi cerca di scrivere nello stile del XIX secolo, diventerà involontariamente una parodia, perché l’epoca della scrittura è quella che è. Ma cosa diventa un’autobiografia se qualcuno prova a scriverne una?
Diventa anch’essa una parodia? E se sì, perché esattamente?
Peccato non abbia una conoscenza più profonda di Derrida.
Come è noto, risulta quasi impossibile discorrere della poesia finnofona, nell’ambito della Finlandia, senza in qualche modo far riferimento al modernismo. La maggior parte dei critici letterari finlandesi sembra soffrire di quello che potremmo definire “complesso di necessità”, che sembra quasi imporre un modello d’analisi basato sulle caratteristiche di questo movimento, in modo da poter classificare con sussiegosa certezza un testo come pre- post- meta- o semplicemente modernista, permettendo loro anche una sorta di incertezza classificativa, ma sempre nell’ambito del modello suddetto.
Anche lo stesso concetto di poesia, per quel che è dato comprendere, sembrerebbe ugualmente semplice: un testo scritto in verticale, su una colonna. Tutto il resto cade in una delle seguenti categorie: prosa, prosa poetica o poesia in prosa.
Gli scritti della Sumari ricordano sotto molti aspetti i pastiche poetici di Hrabal, e anche questo diario non fa eccezione: il vero filo conduttore è anche in questo caso la poesia e la capacità dell’autrice di evocarla a piacimento in ogni situazione.
Di seguito la traduzione delle pag. 100-106 di Junanäytelmä.
“Junanäytelmä”
Like, Helsinki 2001
Malbork – Kaliningrad 14.6.2000
Nel mio sogno compare una persona importante, il presidente del LiteraturePizzaExpress. Secondo lui, la pizza della letteratura è l’ultima geniale innovazione nel campo della tecnologia letteraria. Non so cosa sia una pizza letteraria, ma Ruben Stiller, conduttore del talk-show, introduce al pubblico il presidente, il quale è seduto in poltrona con la posta che gli scorre in grembo! “Lo vedete anche voi, no? C’è proprio bisogno della pizza letteraria!”, afferma.
Sono nella carrozza del treno insieme ad Anita e Håkan. Vedo case violacee che serpeggiano lungo strade tortuose, con le mura sporgenti come quelle di Gaudì. Penso che potrei essere un architetto migliore di lui. Mi sveglio a Braniewo, alla stazione di confine prima di Kaliningrad. Håkan riesce finalmente a svegliarmi sbottando seccamente: “Sleep now, wake up in Siberia”. Anita continua aggiungendo che proprio così era successo ai suoi nonni ingriani, originari del paesino di Konkkala, la cui dispersione/ridistribuzione era iniziata già sotto Lenin.
Poco dopo la frontiera, il villaggio di Malanovo. Yes, it is Russia all right. Siamo accolti da un coro di donne anziane, elegantemente vestite e dai denti d’oro, che cantano come un gruppo di arpie. La gente balla sulla banchina della stazione. Ci viene offerta una pagnotta grande come una teglia, un segno di ospitalità, da sbriciolare e intingere nel sale. I nostri scrittori dell’Europa occidentale sono quasi tutti in Russia per la prima volta e per loro è qualcosa di strano e bizzarro. Insolito è anche il numero di giovanissimi assistenti che si precipitano sul treno, quasi fossero delle scolaresche, tutti con cappellini gialli e magliette con scritto Literature Express e così via. Ci viene consegnato il programma di Kaliningrad, non privo di una certa megalomania. Gli occidentali sono stupiti dai dettagli del programma: “Cocktail party alle 10 – portate i passaporti!”.
L’accoglienza alla stazione ferroviaria di Kaliningrad è incredibile, eccessiva. C’è una banda di un centinaio di ottoni che quasi fan tremare i tetti. Fuochi d’artificio in mezzo ai binari della stazione. Migliaia di palloncini ci piovono addosso dal tetto. Tutti ricevono un mazzo di fiori… Avreste dovuto vedere le facce degli occidentali.
Il tragitto in autobus fino all’hotel è lungo, lunghissimo, pensato apposta per farci vedere al contempo la città. Una breve visita al monumento a Puškin, che sembra essere presente in ogni città russa. Ai piedi della statua è stata sistemata un’orchestra sinfonica con l’aggiunta di strumenti nazionali, che suona un toccante pot-pourri di musica classica e canti popolari, e anche in questo caso si balla. Durante il viaggio in autobus, la guida turistica non vuole annoiarci con la storia del suo Paese o della sua città, così ci dice. Vuole raccontarci storielle divertenti. Come se questa gente avesse dei complessi di inferiorità, per il fatto di vivere lontani e isolati, ancora più dei finlandesi. Gli scrittori hanno forse attraversato l’Europa per ascoltare barzellette? Non so nogià, per via della loro professione, pieni fino al collo di storielle divertenti?
La città di Kaliningrad ha ‘sempre’ avuto una grande importanza militare. Prima delle ultime guerre, esisteva un’enorme rete di cunicoli sotterranei in cui si diceva fossero celati chissà quali segreti militari e, naturalmente, dei tesori. Durante la Seconda guerra mondiale, i kaliningradesi pensarono bene di inabissare il loro fiore all’occhiello, la rete nel sottosuolo, per evitare che cadesse in mano al nemico. In totale, una sessantina di chilometri di cunicoli furono inondati dall’acqua del mare. Da allora, i corridoi sommersi e parzialmente crollati continuano a dispiegarsi sotto la città, pur non essendo più accessibili. I lavori di recupero e sgombero sarebbero estremamente difficili e pericolosi. Le leggende su ciò che si potrebbe trovare là sotto diventano sempre più fantasiose di generazione in generazione.
“Tanti artisti e personaggi di spicco sono venuti a morire qui”, spiega la nostra guida nel suo inglese dignitoso. È vestita in modo sexy con un abito da sera scollato e tacchi a spillo leopardati. A Kaliningrad si può dare un’occhiata alle statue di Lenin, Stalin, Marx e Schiller e alla tomba di Immanuel Kant. Il paesaggio urbano è intristito dagli enormi edifici di epoca sovietica, bui, inutilizzati o incompiuti, che di solito si ergono solitari nel mezzo di uno spazio vuoto e desolato. Sono come scheletri di avvoltoi al centro di un formicaio.
A parte la mancanza di mezzi (“in effetti avremmo delle attrazioni turistiche, ma come potete vedere non ci sono soldi per restaurarle”), l’autoironia dei cittadini è rivolta comunque alla rete stradale, dissestata e piena di buche. “Gogol diceva che in Russia ci sono due cose che non vanno: il cibo e le strade. Be’, almeno non ci manca da mangiare. Ma non possiamo usare le automobili giapponesi, sono troppo piccole e delicate. I macchinoni tedeschi sono più adatti alla nostra rete stradale.”
All’hotel, trovo subito due ragazze in maglietta gialla che mi aiutano con le valigie. Le guardo stupita e non posso fare a meno di constatare ad alta voce di non aver mai avuto due ragazze facchino. Sembrano divertite, “Well this is Russia, here you will see many things you have never seen before.”
L’inglese lo parlano bene.
Dalla finestra della camera si ha una vista incantevole del lago, purtroppo però l’albergo è a dieci chilometri dal centro. Qui ci sentiamo come pacchi in un deposito. Il personale ci informa bruscamente che non è possibile cambiare la valuta. “Questa non è una banca, è un albergo”. Ma quando, in mancanza di rubli e altri spiccioli, paghiamo il caffè e il cognac con banconote da 100 dollari, il rude cameriere, senza battere ciglio, ci porta il resto in rubli.
Fanculo a questi interminabili cocktail party, a quel sentirsi morire di fame, alle sbronze, alle voci delle scrittrici che piagnucolano discutendo se l’obiettivo di quei party sia fare di tutti noi degli alcolizzati; e fanculo anche alle canzoni da ubriachi e al graduale restringimento della cerchia di uomini intorno alle donne. In questa città, i discorsi dei notabili locali sono ancora più vuoti che altrove, le ristrettezze economiche e l’isolamento marcano pericolosamente una città la cui unica gioia sembra quella offerta dallo sparo dei fuochi d’artificio in tutti i luoghi possibili e impossibili. Forse ci stiamo facendo un’idea un po’ estrema di Kaliningrad.
Un’attrazione turistica è stata parzialmente restaurata: la cattedrale tedesca, a pieno regime per ogni funzione festiva, anche se alcune pareti sono ancora in rovina e una parte è stata rimessa a nuovo da poco, tanto che si avverte ancora il puzzo di vernice. Dalla finestra vedo una giovane, slanciata e bella, che avanza veloce, anche se barcollante, con le stampelle. Ha una sola gamba e indossa la minigonna. Non potrebbe essere più nuda. Dopo molto tempo, ora avverto un dolore che mi inizia ad alitare dentro – un dolore che mi entra dentro ed esce fuori come l’aria – lo respiro dentro di me. La minigonna non copre la sua invalidità, come neppure il telone che avvolge l’altare copre qualcosa, e nemmeno i sorrisi amichevoli degli scrittori coprono i fili elettrici scoperti o i ponteggi.
Ascoltiamo quello stupefacente canto corale. Sbadigliano lungo la parete nei loro tutù rosa le ballerine, gli scrittori stanchi spettatori in prima fila. La cattedrale è talmente poco illuminata che alcuni sono tentati di muoversi durante l’esibizione, altri vanno a fumare, altri ancora si limitano a sgranchirsi un po’ le gambe.
Nulla impedisce alla bellezza di venire a patti con la bruttezza. Per la rappresentazione nella cattedrale, agli scrittori è stato chiesto di scegliere e leggere quattro versi di una loro poesia. Alcuni di noi hanno rifiutato quell’onore, altri hanno sezionato dai loro testi un moncherino. A turno, come manichini, marciano blaterando quei lacerti, di cui non si sente la traduzione, detta troppo veloce e troppo piano per godersi almeno il ritmo di una lingua straniera. Uno spettacolo completamente inutile.
Le esibizioni della serata sono un tale miscuglio di generi che non è facile trovare qualcosa di corrispondente in nessun angolo del mondo, una simile apertura naif verso tutto. Quindi bisogna godersela finché dura. Non ci sarebbe stato nemmeno bisogno degli scrittori stranieri, il pubblico locale si diverte gustando appieno lo spettacolo e sostenendo sfrenatamente la magnifica performance dei loro concittadini. Dopo l’ottimo coro e il Gloria in excelsis Deo sul palcoscenico monta un ragazzino in un costume scintillante alla Elvis, che canta un paio di pezzi rockeggianti e, come finale, una ballata sdolcinata per la cara mamma, “Maamu”. Quindi è il turno di costumi popolari, chiassosi ritmi di danza e vibranti canti popolari. Dopo l’uscita di scena del gruppo folkloristico, è la volta di una sfilata di adolescenti vestite da gattine che danzano fascinose nei loro body attillati agitando le code vaporose. Poi un coro di monaci intona una salmodia medievale. Durante il canto dei religiosi, piccole danzatrici vestite d’argento distribuiscono al pubblico delle candeline accese da tenere in mano. Alla fine, tutti i partecipanti si radunano sul palco per ricevere il meritato apprezzamento, e vengono accolti con calorosi evviva e l’agitarsi di candele. Io non faccio altro che stringere nel pugno la mia, il significato originale della candela è la preghiera, che si leva in aria sotto forma di fumo.
È così sottile e brucia così veloce che non rimane nemmeno la stearina, scompare tutta. Prego affinché il viaggio vada bene fino alla fine, che sia fruttuoso e produttivo, che nessuno impazzisca e litighi con gli altri. Non c’è altro amore che la creazione, rammento al dio sconosciuto.
Mi piacciono i contrasti: la tenerezza e la crudeltà, il ridicolo e il glorioso. Non ho nulla da obiettare se la milizia perquisisce il nostro taxi alla ricerca di armi.
“Vedete, i miliziani sono in allarme a causa dell’esercito ceceno”, spiega il tassista. Non ho nulla da obiettare. Nulla in contrario.
Il cocktail party su una nave trasformata in museo marittimo. Hanno davvero intenzione di fare di noi degli alcolizzati? Non vedo più la nostra scorta, forse il loro turno di lavoro termina alle 16. Håkan ha visitato il museo marittimo, visitando la cella dove venivano rinchiusi i marinai quando impazzivano nel bel mezzo del mare aperto. Dei marinai vivi e veri, in uniforme, se ne stanno in piedi ora negli angoli per essere ammirati, sorta di orgogliosi stereotipi della professione.
Conversazioni da cocktail party. Il più giovane degli scrittori sul treno, Nicola, un italiano focoso e sempre attento alle forme, è tutto agitato: “What, everybody gets fucked around this train except me!”, strilla nervoso. Ora inforca occhiali da sole rossi. Ora filma con la videocamera. Non aspira al realismo, ma quando punta la telecamera sulle persone, chiede loro di fare qualcosa. “Anni, di’ qualcosa in finlandese! Mostra quanto sei felice che siamo arrivati fin qui!”
In autobus, sulla via del ritorno, il coretto lo fanno gli estoni.
Il peggior macho caucasico del gruppo occupa il posto accanto al mio e si dà da fare. “Tu mi piaci. Non come scrittrice, ma come donna”, si lancia in francese. “Peccato che non abbia letto i miei libri”, rispondo gelida. “E poi, sono venuta qui come scrittrice, non come donna”. Mi pare già di sentirlo raccontare le sue conquiste amorose una volta a casa, nel Caucaso. Lo sta già facendo.
“Le donne scrittrici”, mi dice in tono confidenziale, e facendo un gesto di disdegno. “Dovrebbero essere trattate come tutte le altre donne”. Aggiunge anche che, ma che resti fra noi, sono senza dubbio un’alcolizzata. Che tipo sagace. Ma potrebbe anche essere un’altra delle sue tecniche per far colpo: lanciare prima un insulto, e poi ricoprirlo con una valanga di sciocchezze mielose buone a neutralizzare l’offesa, per ritrovarsi alla fine a mani vuote, lo zero assoluto. Reggendo un mazzolin di fiori.