Martedì 15 novembre alle 18.00 alla Casa delle Letterature di Roma è organizzato un incontro dal titolo Manganelli, l’impossibile. 1922-2022. Si celebrano i cento anni della nascita di uno che aveva da dire e ridire su tutto, figuriamoci sui centenari: “Ma che bizzarra istituzione, a ben pensarci, sono mai questi centenari; che abbiano qualcosa a che fare con le povere e infantili feste dei santi può essere, ma non ne spiega lo strano, oltraggioso e inattendibile prestigio” (Il rumore sottile della prosa).
Autore cult (non da oggi) di romanzi, saggi, recensioni, testi per la radio e teatrali, fiorisce a ogni stagione con un nuovo libro, autentico caso di Concupiscenza libraria (come il titolo del volume da poco pubblicato da Adelphi a cura S. Silvano Nigro, che raccoglie saggi brevi e recensioni letterarie)
Scrittore spesso ridotto alla “dimensione riduttiva dell’acrobazia verbale, del funambolismo, del gioco dell’intelligenza” (Michele Mari, 1999) per Manganelli tutto è letteratura, “la letteratura è onnivora; trasforma tutto in se stessa”. Su queste radici si sviluppò la sua maniera di far giornalismo culturale come operazione intrinseca alla letteratura.
Proprio in questa attività rientrano una serie di reportage, che Manganelli scrisse tra il 1971 e il 1989, in un suo girovagare tra gli “altri Settentrioni” (Svezia, Islanda, Finlandia, Danimarca, Fær Øer, Scozia, Inghilterra, Germania, Norvegia), pubblicati su varie testate e poi raccolti a cura di Andrea Cortellessa nel volume L’isola pianeta (Adelphi 2006).
Dopo aver parlato di Svezia e Islanda, il terzo capitolo si intitola: “Essere finlandesi significa essere lontani”. Nelle pagine dedicate al paese nordico, “lontananza” e “solitudine” ritornano costantemente. Fino a un’epitome antropologica del Paese che recita: “La solitudine, questa poderosa, stupenda abitante della Finlandia”.
Ma se immaginate, voi fortunati che non avete letto questo libro (fortunati perché potete scoprirlo adesso) che Manganelli si dedichi a una specie di lapidaria metafisica del Paese nordico vi sbagliate. Il viaggio di Manganelli è una vera e propria guida attraverso il paesaggio, il clima, l’arte e (soprattutto) l’architettura, la storia politica della Finlandia, scrivendo pagine che restano in mente perché sono quasi sempre il contrario di quanto di solito guide e siti turistico-culturali ci ammanniscono. Un esempio? Si guardi a p. 117 cosa dice della “natura intatta”: “lessicalmente corretto ma moralmente sviante”. (Lo scriveva più di mezzo secolo fa.)
Provate a leggere le pagine dedicate alla architettura di Helsinki, e ditemi chi ha saputo raccontare come una rivelazione quella Piazza del Senato che è il posto più fotografato del paese. “Vi sono molti appunti nel mio archivio che fanno di quella enorme piazza rettangolare una ‘storia’… I colori: la cattedrale è bianca, di un candore cigneo, una sorta di altero pallore; negli altri palazzi il bianco si alterna a un giallino morbido, sommesso, un tenero addobbo.”
La piazza, con qualcosa di delicatamente anacronistico al suo centro: la statua di uno zar. Ma, commenta Manganelli, “gli anni in cui Engel costruisce la piazza di Helsinki sono gli anni in cui Gogol’ scrive i suoi capolavori. In qualche modo, i conti tornano. Qualcosa di gogoliano, una grandezza decidua, una inquietudine miniaturizzata scivola tra i capitelli, le colonne, le cupole; e l’opera è gloria e finzione teatrale.”
Ma Helsinki è una “città capolavoro” anche per quello che vi sarà costruito dopo. “Generazioni di grandi architetti hanno lavorato in questa strana città, che nei giorni di sole pare lavorata nell’aria, o in un legno tenerissimo, docile a tutte le tenerezze delle modanature ed alle scabre audacie del materiale deliberatamente crudo.” Ma questa “peripezia architettonica palladiana” non è monotonamente solo una sequenza ininterrotta di colonne e cupole e frontoni. D’improvviso, poche centinaia di metri più in là, un altro edificio simbolo della città incute una sorta di “epidermica, isterica inquietudine”: la stazione di Saarinen.
Ci vuole tempo per accettarla, prima di accogliere il segreto “dell’errore, dello scarto, del disagio dichiarato, che culmina nelle quattro statue di figure umane”. Isteria: chi ha saputo raccontare meglio l’apparizione incongrua di quei quattro tedofori impalati come santi martiri davanti alla facciata geometrica dell’edificio?
Manganelli non si limita a seguire una guida qualsiasi, ma si affida a un italiano che la Finlandia la conosce da molti anni. E sceglie bene. Si tratta di Renzo Porceddu, allora addetto commerciale all’ambasciata, persona colta e bravissimo traduttore. Si fa accompagnare in un giro letterario della città, finendo in un luogo caro a Malaparte, di cui il toscano racconta in Kaputt: vicino all’hotel Torni c’è “il cimitero svedese, nel quale grandeggia il biancore della ‘Vecchia Cattedrale’ di Engel”. Porceddu lo accompagna a ritrovare il “grosso macigno della tomba ‘di un certo Sirk’; ma la panchina su cui sedevano a bere Malaparte e i suoi amici, quella non c’era più.”
Sulle orme di un altro italiano che della Finlandia ha dato un ritratto tutt’altro che convenzionale. “Molte cose inventava, molte. Ma le sue invenzioni erano, a loro modo, vere. Inventate, non mentite.” Posso solo immaginare il sorrisetto complice, davanti a queste parole, dell’autore della Letteratura come menzogna.
Ancora Engel, dunque, a incantarlo. Ma se immaginate Manganelli genuflesso, come ogni buon reporter alla sua prima visita, davanti all’empireo degli architetti nordici, niente di più sbagliato. Nel suo viaggio si sposta nella terra del “tamburo dello sciamano”, va a visitare Rovaniemi, e premette di avere molestato diversi amici annunciando che: “’andavo a Rovaniemi‘; nella mia povera mente disinformata, Rovaniemi era una mirabile città nordica, un capolavoro costruito tutto da Alvar Aalto. Immaginavo…”, e qui si abbandona a quel genere di fantasticherie che trovate in qualsiasi rispettabile guida della Lapponia. E invece che succede a Manganelli? Arrivato nella capitale della Lapponia ci vede un’enorme struttura di cemento che, causa la guerra, è moderna per necessità, e dunque impossibile da pensare “vecchia”. Gli edifici potranno solo venir demoliti, un giorno, e sostituiti da ciò che tra un secolo sarà “moderno”. Perché è un luogo senza differenze, senza strati, senza dialoghi costruiti nel tempo. “A Rovaniemi ogni edificio monologa… sebbene non grande, è stata pensata sulle dimensioni di un posatoio per automobili.”
Non sfugge nemmeno lui al pregiudizio delle zanzare estive, assenti quell’estate per via di una temperatura più fresca del solito (ripete, per sentito dire, “grosse tre volte le nostrane, capaci di martoriare fino al delirio”), però è a sera che Rovaniemi ci consegna un’immagine indimenticabile attraverso gli occhi cinici dello scrittore:
“Sono nel mio albergo, la finestra dà su di una piazza di buon traffico. Dopo le 8 il traffico rallenta: in 20 minuti conto sull’asfalto umidiccio una dozzina di macchine; due motociclisti, uno dei quali si ferma con vana speranza davanti ad un portone, poi riparte. Un ciclista, sei o sette uomini soli, in diverse direzioni, a minuti l’uno dall’altro; una coppia frettolosa, moderatamente colpevole; e infine due donne che escono insieme da un piccolo cinema; alle 8 e mezza sono abbastanza depresso da poter leggere un romanzo di Graham Greene, ‘In viaggio con la zia’, trovato su uno scaffale in una cartolibreria…”.
Per spiegare il Paese, passa a raccontare la sua storia: il ruolo decisivo di Urho Kekkonen, figura di enorme prestigio all’epoca: ricordiamo che proprio nell’estate del 1975 a Helsinki si celbrava l’Atto finale che prende il nome della capitale. E parlando del ruolo politico della Finlandia tra est e ovest, ne parla come del rapporto tra uomo e natura nel paese nordico. La Finlandia, dice, “è il risultato di un patteggiamento tacito e severo tra tutto ciò che non è uomo, e che non so chiamare, letterariamente, ‘natura’, e l’uomo. … i sassi, i macigni, dirimpettai di una delicata conversazione; e quella conversazione è la Finlandia. È inutile dire che la Finlandia è bella; è assai di più: è un’idea di come potrebbe essere la convivenza tra uomo e nonuomo, una convivenza che altrove è guerra aperta, e qui è un mite e severo patto con le acque e i ghiacci, con il sole e la notte, con la breve, emblematica estate, e la lunga fatica dell’inverno.” (pp. 117-8).
Dove i confini tra natura e politica sono più che labili.
Un piccolo libro, L’isola pianeta, da raccomandare a chiunque decida di visitare la Finlandia per la prima volta. Ma da prescrivere a quei reporter del week-end che periodicamente vengono inviati a “scoprire” un Paese nordico. Da usare a mo’ di vaccino, per impedire ai virus malefici dei luoghi comuni, dei sentito dire, delle paasilinnate e delle kaurismakerie, di annebbiare la vista, vedendo nature “incontaminate” ovunque, a tutti i costi.
Un finlandese malinconico e colto che parla sommessamente al mondo dice ad apertura del capitolo sulla Finlandia: “Di noi non sanno nulla”. Anche nella postfazione all’Isola pianeta il curatore, Cortellessa, cerca di inquadrare quelle cronache iperboree di Manganelli facendosi accompagnare da Ludovica Koch, nota traduttrice di scrittori moderni norvegesi, svedesi, tedeschi, inglesi e americani. Non finlandesi. E così in quella postfazione si parla di Svezia, Islanda, Danimarca, Fær Øer, Inghilterra… Di Finlandia poco o nulla. Cinquant’anni dopo viene da ripensare a quel “Di noi non sanno nulla”. Una profezia? O, avrebbe forse ghignato Manganelli, una speranza?
(Per le foto utilizzate siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)