Dialogare? È una parola

Un volume dedicato a una nuova forma di terapia del disagio psichico

Dalla Finlandia arrivano spesso in Italia idee nuove, e modi originali di affrontare antiche questioni. Tra queste metterei l’approccio dialogico in psicoterapia. A fondamento di questo approccio c’è il rispetto incondizionato dell’alterità, la creazione di uno spazio in cui le voci possano avere ascolto. Nell’analisi tradizionale, in cui un terapeuta è responsabile di quasi tutto, a perdersi è l’ascolto, l’attenzione per l’altro, ma è proprio questo, ci si dice, a comportare “un margine di tolleranza dell’incertezza”.

Sin dalla nascita, viene osservato, la prima cosa che si apprende è diventare partecipi del dialogo. Si nasce all’interno di relazioni e quelle relazioni diventano la nostra struttura. È proprio questo alla base dell’orientamento psichiatrico di dialogo aperto che è stato avviato nella Lapponia occidentale finlandese, a partire dalla collaborazione di un sociologo e scienziato sociale, Tom Arnkil, e uno psicologo clinico, Jaakko Seikkula.

Jaakko Seikkula

Parlando di questi due studiosi così si esprime Riccardo Mazzeo, nell’Introduzione a un volumetto da poco pubblicato in Italia: “Si occupavano il primo di persone in difficoltà sotto il profilo sociale, il secondo di pazienti psichiatrici. La cifra comune dei due tipi di disagio era l’impossibilità di entrare in relazione, di dialogare. Persone ferite, lacerate, sofferenti, che ogniqualvolta avevano osato tendersi verso l’Altro, sperando di ricevere conforto, si erano ritrovate umiliate, svilite, annientate. E così avevano smesso di parlare.”

Al lavoro di ridare voce a queste persone partecipa anche Nina Harriet Saarinen, finlandese, che lavora per l’ATS di Brescia, insegna all’università, tiene seminari di pratiche dialogiche.

L’incontro tra Nina Saarinen e Riccardo Mazzeo (già caporedattore della Erickson di Trento, poi ricercatore all’Università di Perugia, coautore di volumi con pensatori come Sygmunt Bauman) ha portato a questo volume intitolato Dialogo, cinema e letteratura, primo della collana Pratiche Dialogiche dell’editore Pensa di Lecce.

Il volume ha (sintomaticamente) la forma di un dialogo, una specie di scambio epistolare in cui Nina pone domande e propone argomenti a Riccardo, che risponde e dialoga con lei. Su cosa?

Dice Mazzeo della sua coautrice ad apertura del volume: “Condivide la mia passione per il cinema e la letteratura, ed entrambi riteniamo che l’arte in generale e queste due arti in particolare possano essere preziose per vivificare il dialogo.”

Ma Saarinen aggiunge qualcosa di interessante, parlando del “chiaroscuro che domina questo mondo”, a proposito delle proprie origini: “La Finlandia, capace di coniugare il benessere individuale con quello collettivo, ospitale, libera dai protagonisti del Grande Gioco geopolitico e quindi neutrale e indipendente (finché l’invasione dell’Ucraina l’ha indotta ad aderire alla Nato), ma anche laconica, ripiegata, con un senso della privacy probabilmente eccessivo e per questo inconsapevolmente poco incline al dialogo.”

Conferma Mazzeo: “L’approccio dialogico, nella gelida Finlandia, fu creato non solo per superare la solitudine di tante persone, ma soprattutto per rimuovere la corazza frapposta sia ad altre persone sia ad alcuni aspetti di se stessi.”

E di seguito, affrontando questioni di metodo: “Abbiamo in noi una moltitudine di voci e, come ha illustrato Bachtin discutendo i romanzi di Dostoevskij, nessuno è padrone della verità: ciascuno dei suoi personaggi ha la propria verità, incontestabile dagli altri; ecco perché dovremmo continuare a condurre un dialogo rispettoso per vivere una vita polifonica. È considerando l’altro un individuo autonomo, accettando la nostra ambiguità e offrendo la nostra disponibilità a essere umili quanto basta per lasciarci coinvolgere su un piano di uguaglianza che possiamo attraversare i confini.”

“L’approccio dialogico ha qualcosa di fondamentale in comune con l’analisi lacaniana. Secondo Lacan, il superamento del disagio esistenziale non si ottiene attraverso la mera esplorazione delle stanze più remote del nostro inconscio, come riteneva Freud. Il limite della prospettiva di quest’ultimo, peraltro preziosissima, è che riteneva bastasse riconoscere le ragioni profonde del nostro malessere ricercandole nei reperti del passato per superarle.”

Perché cinema e letteratura servono a questo scopo terapeutico? Scrive Nina (35): “Il cinema e la letteratura sono in grado di visualizzare l’esplorazione stessa nella ricerca di un senso.”

Viene però da pensare che il nostro mondo contemporaneo abbia da tempo sviluppato altre forme, molto diffuse, per socializzare e dialogare. Si tratta del mondo formato social, e il tema della socialità online ricorre a più riprese nel libro, presentata fondamentalmente come un sistema di distrazione di massa. Perché?

Una scena di “Chiamami col tuo nome”

Perché “abbiamo bisogno di un vocabolario più ricco per parlare in profondità e non solo in superficie, e non possiamo costruircelo attraverso i social e i videoclip: servono i romanzi” (Riccardo, 68). E i film, mi sento di aggiungere. E a dimostrazione (78-79): “Un film molto ben fatto e importante per il dialogo è Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, ambientato negli anni Ottanta, in cui assistiamo al progressivo avvicinamento e riconoscimento di due giovani omosessuali, una ‘sintonizzazione’ che non sarebbe stata possibile nel mondo attuale che funziona prevalentemente online: ciascuno dei due ragazzi sarebbe stato distratto dai propri dispositivi, proiettato non verso l’esterno vicino da esplorare con attenzione ma verso l’esterno lontano, da consumare in fretta.”

Ma questo è solo uno dei tanti temi del libro. Si parla (soprattutto Riccardo) di romanzieri come Proust,  Walser, Kafka, Camus, Hamid, Liksom, e di registi come Luc Besson, De Sica, Woody Allen, Bergman, Kuosmanen. E di molti altri, a riflettere le personali preferenze dei due autori. Spesso l’abbrivo è di questo tipo: “Ovvio che le preferenze possono essere differenti, e a me era piaciuto il romanzo di un autore che mi aveva come ipnotizzato col suo primo libro…”

Lo scambio di opinioni prevede che si presenti la trama di un romanzo, o di un film, e si sfrutti l’argomento per segnalare lacune, difetti, carenze delle nostre relazioni umane e sociali, come l’incapacità di Elaborare il lutto (parlando di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino) o la paura di mostrare Appartenenza e identità, l’erosione del Senso di colpa: sono i titoli di alcuni capitoli, che potrebbero tranquillamente far parte di un tradizionale manuale di terapia analitica.

Il volume è di agevole lettura, altri testi sul tema dovrebbero uscire per lo stesso editore, ed immagino entreranno più a fondo nel metodo e nell’analisi. Nell’attesa, il profano che legge, come me, è portato a fare una serie di riflessioni, che presento ai nostri lettori (come qui facciamo di solito). Ho solo letto qualche classico di psicologia, e dunque mi permetto qualche riflessione soprattutto come appassionato di romanzi e di cinema, in cui ho qualche competenza.

1. Nelle conclusioni, Nina dice a Riccardo (139): “abbiamo affrontato le situazioni più dolorose e inquietanti dell’animo umano che possono essere illuminate e lenite attraverso il dialogo dalle storie di romanzi e film, dall’identificazione con i personaggi e dalla prospettiva nuova che ne può emergere.” Se ho capito bene, si tratta di utilizzare trame e storie narrate, farne oggetto di un dialogo per affrontare certe condizioni di sofferenza e lenirle, grazie anche all’identificazione con personaggi e situazioni. È qualcosa che ho sempre fatto. Ho letto molti romanzi, ammetto quasi tutti quelli di cui si parla in questo volume. E leggendo Dostoevskij, per esempio, da ragazzo (non ero ancora nella gelida Finlandia, ma nello stesso assolato Salento di Riccardo) non facevo altro che far dialogare “Stavrogin, una specie di principe carismatico e demoniaco, [che] coinvolge per noia una serie di personaggi a cui fa commettere attentati nichilisti” (98) con certi fenomeni terroristici che coinvolgevano l’Italia degli anni ’70. Non solo, ma ne parlavo e discutevo con amici e compagni, in quegli anni abbastanza tormentati. Mi è stato utile, moltissimo.

2. Ho visto parecchi film, e conosco bene il film ispirato dal romanzo omonimo della Highsmith  Il talento di Mr Ripley. Qui viene presentato sotto la tematica de “l’identità e il desiderio di cambiarla.” Ma mi viene riferita tutta la trama del film, accompagnata da commenti. La domanda che mi viene in mente è: a chi è destinato questo libro? Forse non a chi, come me, ha letto i libri e visto i film di cui si parla. Perché invece di confrontarmi con due pareri, certo interessanti su un dato tema, mi ritrovo a leggere pagine e pagine di trame fin troppo conosciute? Non solo a me. Perché libri e film menzionati sono ben noti, credo, a un pubblico anche non specialista. L’effetto è, per il lettore, poco stimolante.

3. Mi sono convinto, nella mia esperienza di lettore anche di tanta critica sul tema, Bachtin, qui citato, o Iser, che ogni libro coinvolge sempre un dialogo aperto soprattutto col lettore. Perché ciò avvenga, chi scrive deve anche lasciare al lettore uno spazio, per farsi un’idea, porsi domande implicite, aggiungere un suo commento, insoma “dialogare” col testo. I grandi romanzieri lo fanno sempre, lasciando il lettore nel dubbio, sulla trama, sui personaggi, sul senso finale da dare a una storia. (Lo fa magnificamente Hotakainen, nel suo penultimo romanzo intitolato proprio Tarina – Una storia – in uscita per Iperborea col titolo La grande migrazione).

Da osservatoriomantovano.it

Ma quale spazio si lascia qui al lettore-spettatore, quando le opere citate e gli autori sono regolarmente introdotti da “più importante, da noi più amato”, e l’opera di Proust, per citarne una, “usa un linguaggio talmente ricco e metaforico che la maggior parte dei critici letterari la considerano la più importante del Novecento” (69)… Che spazio ha un lettore, anche per un’opinione, anche per dissentire, schiacciato da tanto peso autoriale? A che scopo dichiarare subito, a proposito di Massimo Recalcati, che è “autore caro a entrambi”, quando un lettore non digiuno di analisi (ce ne sono) avesse su Recalcati un’opinione invece negativa? Non basterebbe riportare semplicemente il parere del noto analista, e farlo così “dialogare” con il parere di chi legge? Dove è quel “margine di tolleranza dell’incertezza” se tutto è porto apoditticamente?

4. Un commento, più personale ma non meno significativo, credo. Il dialogo letterario, soprattutto quando tocca autori e testi che passano da una lingua e una cultura all’altra, passa anche per il lavoro dei traduttori. Che non sono invisibili, nonostante qualcuno se lo auguri, ma contano anche per la qualità del dialogo stesso. Ebbene, in un volume che cita a ogni pagina un testo di un’altra cultura, non c’è nemmeno una menzione di un traduttore. Anzi no. C’è solo un caso, a p. 52, nota 5, per una citazione da Fahrenheit 451. Dove Mazzeo ci informa che è una sua traduzione.

Sul piano della presentazione editoriale, infine, Nina Saarinen viene presentata come la “massima esperta in Italia del fruttuosissimo approccio dialogico, ormai adottato universalmente dal governo finlandese e sempre più apprezzato in Italia da diverse regioni e università.” Mi risulta che in Finlandia esistano come nel resto del mondo vari modi di trattare il disagio e la sofferenza della psiche umana e, a parte i superlativi, non riesco a capire come un “governo” possa “adottare” un qualunque metodo terapeutico in un formato “universale”.

Forse un approccio più dialogante, per i prossimi volumi promessi nella collana dell’editore salentino, renderebbero la materia più interessante per chi, curioso come me, potrebbe essere tentato di leggerli.

(Foto del titolo dal film di Juho Kuosmanen tratto da “Scompartimento n.6” di R. Liksom. Per le immagini utilizzate siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)

Nicola Rainò
Giornalista, traduttore letterario, studioso di lingua italiana e storia dell'arte. Emigra dal Salento a Bologna per studi, poi a Helsinki per vivere. Decise di fondare La Rondine una buia notte dell'inverno del 2002 dopo una serata all'opera.