“Case e uomini quanti Dio ne aveva messi sulla Terra non c’era verso di sradicarli.” Così comincia il nuovo romanzo di Kari Hotakainen (Tarina, Siltala 2020) ora uscito in italiano da Iperborea col titolo La Grande Migrazione.
Mi è capitato di scrivere anni fa, nella postfazione di un altro romanzo di Kari Hotakainen:
“È uno scrittore di cui riconosci subito la voce. Nei suoi testi, gli incipit danno immediatamente il tono di quanto segue, sia un romanzo, una poesia, la rubrica su una rivista femminile. Sono, per un amante del jazz, come certi attacchi di John Coltrane, il colpo di lingua che apre al mood di Naima e ti fa dire: È lui.”
Come traduttore ho avuto la fortuna di seguire questo cervello “con un ciuffetto di peli in cima” (definizione sua) nell’arco di un paio di decenni, leggendo anche opere sue non tradotte in Italia, ma sempre suggerendo agli amici di Iperborea di tradurlo. Perché? Perché è uno di quei rari scrittori che sanno scrivere storie “originali e taglienti”, dice l’editore italiano, ma senza mai perdere di vista il mondo intorno. E questo mondo è (ma non solo) la Finlandia.
Lo è, ovviamente, perché lo conosce e lo studia da sempre. Me lo sono sempre immaginato, travestito da Uomo Qualunque, seduto al tavolino in penombra di un angolo del caffè della Teboil del suo quartiere, nascosto dietro un libro o a un giornale, attento a registrare moti, gesti, parole, di una umanità varia che entra esce si siede mangia beve rutta e tutto il resto dell’umano. E lui registra, ogni dettaglio. Poi scrive.
Quelle sagome estratte da quel laboratorio di periferia, le loro parole e i sentimenti, riprendono vita sulla scena dei suoi romanzi, diventando nuovamente personaggi reali: disoccupati cronici, magazzinieri frustrati, imprenditori esentasse, infermiere bipolari, tutti comunque maledettamente reali, simili alla gente che incontriamo ogni giorno, che ci saluta o no, ma che possiamo riconoscere grazie alla sua costante traduzione.
Questo fa Hotakainen: traduce per noi lettori quel che si agita, celato, nascosto, rimosso, nella mente dei suoi vicini di casa, di bar, di strada. Che sono molto simili ai nostri, e sta qui il segreto della sua stessa traducibilità.
La “Storia” (Tarina il titolo originale finlandese) è un racconto di un mondo molto simile alla Finlandia attuale, in cui il progressivo svuotamento delle campagne e l’enorme ampliamento della (unica) metropoli del paese, viene visto come imposto per decreto: cioè quanto avviene (apparentemente) in modo spontaneo, lui lo racconta come un’imposizione che costringe allevatori, agricoltori, provinciali di ogni risma a lasciare tutto e precipitarsi verso la Città.
Come in Orwell, le situazioni più anomale, le manipolazioni più feroci, vengono raccontate subdolamente come ovvie, scontate, una sorta di fenomeno naturale:
“E così in direzione sud iniziò a colare una valanga di assi di legno, mattoni, cemento, umani e relitti umani, abili e riformati, spilungoni e trasandati, giovinetti e invasati, sudaticci e impomatati, gente di ogni tipo senza distinzioni di età o di sesso, non si fa nessuna selezione adesso, si prendono tutti, nessuno escluso, vermi della terra e arrampicatori, anche a rischio che i deboli crollino e che anche i più forti possano vacillare, non si bada ai dettagli, tutto viene fagocitato, sapendo che alcuni sono utili, altri solo d’ingombro, va a finire così quando si opera un cambiamento, non tutto va secondo i piani, per aria ci sono più variabili che uccelli, e davanti a sé più che una strada dritta c’è un futuro fosco e opaco. È così che va, in tutto il mondo, quando la Campagna si riversa in Città.”
Ma dove alloggiare tanta gente? La classe dirigente, i Responsabili, come dice sarcasticamente (soprattutto a noi italiani) il nome stesso, non trovano di meglio che lavarsene le mani, delegando la soluzione del problema abitativo al cosiddetto Archivio, un gruppo raffazzonato di Precari anch’essi affamati, a cui promette un alloggio comodo. L’Archivio redige un questionario: chi risponde narrando la propria Storia in maniera originale e ad effetto, si guadagnerà una dimora. In fondo, non lo sappiamo che raccontando per bene una storia si può ottenere di tutto? Chi viene escluso, finirà alle Baracche, enormi hangar-dormitorio dove si aspetterà solo l’estinzione. La Precaria Ilona Kuusilehto, psicologa disoccupata, si ritrova così a dover esaminare le risposte ma, paralizzata dalla sindrome dell’impostore, non sa come valutarle.
E anzi si lascia coinvolgere (poco professionalmente) da varie forme di empatia per gli esaminati, assegnando un appartamento più o meno modesto a chi sa toccare qualche corda del suo animo precario anch’esso.
Il testo è percorso da una serie di Questionari con domande che si ripetono per gli inquilini del condominio prescelto a far da cavia: Via della Battaglia 62. Caseggiato costruito nell’anno 1967 e destinato a demolizione.
Le schede vengono animate proprio da soggetti del tipo studiato in vitro alla Teboil, e che compilando la scheda della propria vita vengono alla scoperto come personaggi, uno più strambo dell’altro: dall’intellettuale mitomane al truffatore che accoglie in casa un rifugiato, a una timorata di dio convinta che sia tornato Gesù in terra. Una moltitudine di millantatori e ladruncoli in cui è difficile districarsi. Un garbuglio che coinvolge tutti, tanto che anche la Presidente dello stato è ormai prossima al crollo. La sua storia personale, riferitaci dal narratore, incrocia quelle dei suoi cittadini: tra la caduta del desiderio col suo consorte, la fine della privacy e l’obbligo di incontrare gente sgradevole, come “il capo dell’ingombrante Paese al confine.”
Da questo marasma si salvano, provvisoriamente, solo le bestie: quelle che venivano allevate, che si ritrovano di colpo libere, e quelle selvatiche, con cui si scoprono in una sorprendente promiscuità. Tanto da sentire il bisogno di organizzare una riunione per valutare il da farsi. Tra gli ospiti, alcuni trans, come il piccolo Mumin, portatore di idee imprenditoriali, tipo brandizzare gli animali iconici, per rivenderli sul mercato. Ma avendo la malaugurata idea di fare la proposta a un animale poco socievole per natura, un procione.
“‘Grazie per l’offerta’, ringhiò il procione al troll. Per quanto, ahimè, ci fosse anche un fondo di verità. La sua vita era stata uno schifo. In cattività sarebbe diventato una pelliccia e in libertà era classificato come specie aliena nociva. E comunque il procione disse di no. La sua vita era sua, non inventata da qualcuno. Fanculo, io sono un animale, non una tazza e nemmeno una tovaglia”.
A quel mondo di mezzo appartiene anche lo Spirito del maiale, creatura ectoplasmatica che svolazza sulla testa dei suoi stessi consumatori e osserva curioso le loro stranezze. Altrettanto eterea una tenera coppia di vecchietti che passano il tempo a baciarsi, ma che hanno deciso di togliere il disturbo. Questo mondo di cibi in scatola non fa per loro. La descrizione del loro primo incontro, e poi quella del loro suicidio, sono pagine di alta letteratura. Si può raccontare un suicidio con tenerezza? Roba da Hotakainen.
Meglio non rivelare il finale. Ma si possono citare le ultime righe:
“È qui che finisce la storia. E poi ricomincia. Perché così vogliamo. Questa era solo la prima stagione di produzione. La prima e l’ultima, se lo chiedessimo al maiale. Ma agli animali non chiediamo mai niente.”
In questo, come nei romanzo precedenti, Hotakainen scoperchia le bolle del mondo in cui vive: il lavoro, la sanità, la religione, la politica, la scienza. Ce le restituisce svuotandole della retorica e dell’ipocrisia che le riempie. Fa sfilare le sue maschere davanti al lettore chiedendogli: ti somiglia? O è quest’altro che vedi allo specchio?
Come nel caso di un indimenticabile inquilino di via della Battaglia, Kai, o Caj, uno di quelli che vediamo tutti i giorni sfilare sulle passerelle televisive, esibendo se stessi, o la moglie, o i tatuaggi che invadono un corpo vuoto anch’esso:
“Il mio nome era originariamente Kai Rahikainen, ma adesso mi chiamo Caj Rahic. Inizio con il cambio di nome perché è parte integrante della mia storia. Volevo che il mio cambiamento di vita risultasse evidente nel mio nome e anche nel mio corpo, ecco perché oltre al nuovo nome ho fatto anche un tatuaggio sulla schiena. Io riesco a vederlo solo allo specchio, ma la mia adorata Sanna lo legge ogni giorno e fa scorrere le dita sulla sua superficie. Sulla mia schiena sono immortalati i versi del pensatore indiano Gang Poh: ‘Tu sei la corrente, la barca il tuo cuore.’ Ma è una traduzione libera.”
Kari Hotakainen
Iperborea, Milano 2023
(Foto del titolo di Carolina Husu, maaseuduntulevaisuus.fi/ Per le immagini utilizzate, siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)