Il pensatore di Havukka-aho (Havukka-ahon ajattelija, 1952) è un romanzo umoristico di uno degli autori finlandesi più caratteristici e più letti della sua generazione e, per la rappresentazione umoristica del “naturale”, che oggi potrebbe essere letta anche in chiave ecocritica, rappresenta l’apice della prosa umoristico-realista finlandese degli anni ’50.
Il personaggio centrale del romanzo, il contadino e filosofo Konsta Pylkkänen, è essenzialmente una parabola moderna sull’irresistibile ottimismo, sull’umanesimo puro e sul buon senso popolare tipici di chi vive in mezzo alla natura. L’autore, Veikko Huovinen (Simo 1927 – Sotkamo 2009), nato in Lapponia vicino al confine svedese, trae i temi per la sua opera letteraria dall’esperienza personale, avendo studiato silvicoltura ed essendo stato in seguito lui stesso un forestale; si ispira a questo ambiente di lavoro anche per quel che riguarda la saggezza e le sensate opinioni di vita delle persone che vivono nelle lande desolate della Finlandia e che rimangono ancora legate all’antico passato del loro Paese, ai loro antenati e alle loro leggende.
La cifra stilistico-tematica di Huovinen sorvola sui temi alla moda, che lui considera estranei, irrilevanti e fugaci, come qualsiasi cosa che segue i gusti o le tendenze correnti. E forse è per questo che la sua opera ha così tanto da dire ancora oggigiorno, perché si rifà e trasmette la profonda saggezza dell’essere umano, capace di determinare i rigori dell’inverno dai movimenti delle formiche o dai voli degli uccelli. Un’altra qualità per cui vale la pena leggere Huovinen ancora oggi è il suo umorismo popolare carico di ironia, assolutamente non intellettuale, l’umorismo di gente alla buona, proprio come Konsta Pylkkänen.
Il pensatore di Havukka-aho
WSOY 1952
Capitolo primo
Una mattina di luglio il sole fece capolino, sornione, dalla cima di un alto abete in cima alla lontana collina di Mykrävuori. I contorni delle torbiere avevano preso un colore azzurrognolo per via della caligine, mentre le superfici degli specchi d’acqua scintillavano qua e là. Sulla riva di Huolainlampi un astore, trangugiato l’ultimo boccone dell’anatra che aveva catturato, si alzò in volo. Si diresse con calmi battiti d’ali sulla distesa verde della foresta sfiorando le cime dei pini, si librò pigramente sul pendio di Havukka, prima di tentare qualche picchiata su una lepre spaventata, decidendo poi che non valeva la pena di perdere tempo. Si diresse verso l’eremo di Havukka-aho e discese sul recinto. Sprimacciò per un attimo le piume con movimenti pigri e stanchi, poi rimase lì appollaiato a fissare qualcosa. Il mattino prometteva una giornata afosa, nell’aria si percepiva l’odore di un lontano incendio. L’astore aprì il becco, ansimò un paio di volte e poi agitò le ali.
Un silenzio beato, magnifico. Konsta Pylkkänen era seduto sul coperchio del pozzo, intento a grattarsi via con l’indice lo sporco tra le dita dei piedi. Sul suo volto si leggeva un’espressione di profonda riflessione. Dal pozzo sollevò con cautela le pezze da piedi di flanella e iniziò a esaminarla alla luce del sole. La stoffa lasciava trapelare la foresta vicina e la lontana collina di Mykrävuori. Soprattutto, mostrava le impronte scurite dei suoi piedi, ma che schifo! Osservò le pezze quasi con disgusto, erano davvero sporche, ma con un caldo simile erano in ogni caso meglio dei calzettoni, che il sudore trasforma in un coagulo molliccio, informe, un grumo di bava insignificante.
Con movenze lente e composte, sollevò il piede destro sul coperchio mezzo marcio del pozzo, lo poggiò sulla pezza e cominciò a grattarsi la caviglia screpolata, con voluttuosa soddisfazione. Iniziò a muovere su e giù l’alluce, divertito dalla visione di quell’opera d’arte, si schiarì la gola e prese a ridere:
“Come zampa, non è particolarmente bella… al contrario. E di certo più bella non sarà mai. Ma mi permette ancora di arrivare fino alla palude… Beh, in effetti ne ha fatto di cammino. Ma perché ho bisogno di queste unghie lunghe? Non sono mica uno scoiattolo o un picchio”.
Poi Konsta iniziò il suo solito giro mattutino, il cui scopo era quello di vedere quali nuove cose una soleggiata mattina d’estate avesse da offrire agli abitanti di quella remota fattoria. Durante il tragitto, Konsta si schiarì di nuovo la gola e tirò su col naso per poi sputare centrando un ramo di sorbo.
La gatta era acquattata dietro la stalla, sotto il carro, e stava masticando qualcosa. Il suo comportamento furtivo suscitò l’interesse di Konsta, che decise di indagare oltre.
“Cosa stai mangiando, Mikki… Beh, cos’hai lì, cosa stai mangiando? Un topo, eh… no, è una talpa. Hai preso una talpa, ha ha. Ti piace, vero?”.
Si accovacciò per osservare quel rosicchiare di Mikki a distanza ravvicinata. Di tutte le cose al mondo, quella che gli piaceva di più era osservare la gatta fare colazione. Ci mancava solo che facesse anche lui le fusa alla vista di quei denti aguzzi che mangiucchiavano il dorso della talpa, mentre la bestiola mugolava, faceva le fusa e leccava la carne insanguinata con la sua linguetta ruvida. Accarezzò Mikki, e l’animale emise un gemito sordo.
“Te la godi, non è così, Mikki? Mangia pure quel bel prosciuttino di talpa, ma lascia andare la coda, non è niente di che… Che sapore ha di primo mattino? Non sarbbe meglio arrostirtelo un po’, eh? Continua a mangiare, rosicchia pure quanto vuoi. Ma i budellini, sono un po’ amari, no? Che bella vita che fai, non devi nemmeno andare a lavorare nei boschi. Hai avuto la fortuna di nascere al posto giusto.
E dov’è l’amichetto, il fidanzatino di Mikki? Sbrigati, ragazza, mangia bene, mi raccomando, il tuo gatto verrà a trovarti a marzo. Quando ci sarà luna piena, verrà a trovarti dopo aver attraversato il bosco il gatto nero di Joonas. Sai, un gran bel fidanzatino, Mikki, che ti canterà una bella canzone sotto il ponticello del fienile. Ma te lo meriti, furbetta… Perciò continua pure a mangiare…”.
A quel punto, Konsta si alzò dirigendosi verso la casa del fattore Havukka-aho, costituita da un’anticamera su cui si aprivano diverse porte. Quella sul lato destro conduceva alla cameretta, dove c’era il tavolo, il comò, un letto matrimoniale e sulla mensola sopra alcune fucsie in lattine ricoperte di carta crespa; sulla parete di fronte alla porta una targa con la scritta: “Signore, ripaga le sofferenze della madre!”.
La porta in fondo al corridoio nascondeva una ordinata dispensa, quella a sinistra si apriva sulla parte abitativa, dominata da un’enorme stufa coperta parzialmente di pietra ollare. Nel cantuccio dietro la stufa c’era il lavandino e accanto, incassato in un ceppo massiccio, lo strizzatoio. Il tavolo era accostato alla parete opposta, contornato da panche, e sulla stessa parete ticchettava l’orologio. Sotto le travi del soffitto era stato appeso ad essiccare il legno per la slitta e altri attrezzi, e sulle pareti le pelli di quattro topi muschiati, che Konsta stava acconciando, tese nei loro telai. Su una delle panche d’angolo era avvolto un giubbotto sgualcito e strappato che Anselmi usava a mo’ di cuscino per il breve riposo dopo pranzo. E poi c’erano gli scarafaggi, fedeli inquilini di ogni casa di campagna, che trascinavano disgustati i loro corpi avvelenati dal DDT da un angolo all’altro del soffitto finché non crollavano sul pavimento senza vita.
Konsta si sedette in silenzio sulla panca, con la pipa spenta in bocca, e si guardò intorno ad osservare le attività del mattino. Lo strizzatoio già sibilava e l’orologio ticchettava felice sulla parete. Entrambi i ragazzi stavano ancora dormendo nel letto all’angolo, accanto alla porta. Konsta puntò lo sguardo sui suoi vecchi stivali di gomma, già scoloriti dall’uso. Un buco cominciava a formarsi nella piegatura alla caviglia dello stivale sinistro. Si dovrà rattopparlo, volendo, magari basterà stasera, rifletté.
Dai vetri della finestra, i raggi del sole gli cadevano direttamente sulla testa, riscaldandogli piacevolmente la nuca e rivelando particolari mai notati prima.
In verità, il cranio di Konsta era abbastanza inusuale, oblungo in senso orizzontale. Non la fronte, sarebbe stato un segno fin troppo benigno, ma la parte posteriore, davvero considerevole, che sporgeva sopra la nuca. Konsta aveva dovuto comprarsi il cappello della misura più grande, e anche quello aveva presto perso la sua forma, con le falde che pendevano tutte, dal momento che la testa era anche incredibilmente stretta… Proprio così: allungata e stretta. Sopracciglia enormi e prominenti sembravano incorniciare come una montatura gli occhi, sporgenti come lenti. A prima vista, la testa di Konsta assomigliava a un binocolo innovativo e misterioso, con cui Konsta osservava il globo terrestre, le forme della vita e le sue molte meraviglie, le persone, le grandi migrazioni dei popoli, l’universo e i suoi pianeti e molte altre cose interessanti. A volte osservava tutto da un’enorme distanza, altre da molto vicino, proprio come poco prima con la gatta intenta a mangiare. Nemmeno un coleottero che si muoveva sulla foglia dell’ontano riusciva a sfuggire alla sua attenzione, perché in quel caso Konsta si arrestava ad osservarne i movimenti, cercando di farsi un’idea di quel brulicare e della sua necessità in relazione agli altri esseri viventi.
La fronte di Komta non era alta, ma nemmeno troppo bassa, e vi correvano undici rughe dritte, insieme a una cicatrice violacea a falce di luna sopra il sopracciglio sinistro. Era il segno lasciato da un colpo d’ascia di rimbalzo dal ramo flessuoso di un abete.
Rispetto a una fronte di dimensioni medie, il suo naso era davvero imponente. Quella cartilagine prominente era a forma di S, ricordo di quando da ragazzo, nel recinto, aveva fatto a testate con un montone. Questo incidente, di per sé buffo e irrilevante, gli aveva insegnato che non è il caso di stuzzicare le bestie con le corna…
Da vicino, quel naso era una fitta rete di vene bluastre, mentre le narici si inarcavano in maniera passionale e beffarda. Sarebbe forse poco carino affermare come i suoi folti baffi originassero già dalle cavità nasali, cosa che si poteva constatare con sicurezza quando Konsta aveva il raffreddore. Era un uomo cupo ma quando gli scappava una risata, ecco che da quel cespuglio scuro trasparivano dei denti bianchi e luminosi. Una dentatura stranamente impeccabile per un uomo così anziano, un vero miracolo. Konsta Pylkkänen la doveva agli ettolitri di latte che aveva bevuto nella sua lunga vita, oltre che alla lodevole abitudine di ripulirsi i denti con uno stecchino appuntito. Inoltre, i suoi denti non aveva mai assaggiato né il cioccolato né il marzapane.
Sputò in terra. Allora, uno scarafaggio malaticcio fece capolino da sotto la panca. Konsta sputò di nuovo, questa volta per colpire l’animale. Concentrato com’era, i denti gli lampeggiarono per il divertimento e l’eccitazione.
Purtroppo, Iita Havukka non sembrò condividere l’entusiasmo sportivo dell’uomo. Al contrario, gridò con rabbia:
“Smettila, vecchio arnese moccoloso! Se sputi ancora una volta sul mio pavimento ti butto fuori di casa! Dovrei pulire io i tuoi sputacchi? Questo miserabile è buono solo a fare porcherie tutto il giorno. Prendi la carta e pulisci. Hai sentito cosa ti ho detto, sciagurato?”.
“Suvvia, calmati, Iita, mi dispiace” cercò di consolare la donna. “Al mondo ci sono cose peggiori di qualche sputacchio, se proprio vuoi preoccuparti di qualcosa… E poi, qui da noi, in questo luogo lontano da tutto abbiamo sempre sputato per terra…”.
“Zitto e non sputare sentenze!”, Iita lo interruppe rabbiosa. “Parli così solo perché non sei tu a dover lavare il pavimento. Infetterai i miei ragazzi con quegli sputi, imbecille. Sei proprio un idiota se non pensi alle conseguenze per i bambini. Vai a prendere della carta, forza!”.
“Ma dai, perché brontoli tanto, Iita?”, ricominciò Konsta cercando di sdrammatizzare la situazione, con voce ferma. “Una cosa è certa, non sono mica un tubercoloso, e mai lo sarò! E i miei polmoni funzionano benissimo. Riesco a segare un tronchetto di dieci pollici senza che mi venga l’affanno. Sono ancora molto energico. Questo…”
“Basta così. Pulisci i tuoi sputacchi, io di certo non lo farò, ci puoi scommettere!”
La padrona di casa avrebbe voluto continuare a sproloquiare, ma poi le mancò la voce e scoppiò a piangere lacrime amare. E così rimase lì in piedi nella stanza, nascondendo il viso bagnato nel grembiule. Faceva pena vedere quella donna, in altri momenti così coraggiosa e impavida, tremare per il disappunto e l’impotenza. Le si gonfiarono le guance, piene di venature violacee, da cui si poteva leggere la storia di una vita dura in quel posto desolato.
“Ti lavo quei tuoi stracci, eternamente sporchi di pece, ti cucino e tu hai ancora il coraggio di tormentarmi in questo modo? Come se non sapessi che sfacchino dalla mattina alla sera. Proprio ieri, mentre radunavo le vacche, sono caduta nel torrente e sono quasi annegata. Sei contento che mi hai fatto piangere? E Anselmi non dice nemmeno bù a quell’uomo, lo guarda neanche fosse un santino. No, non ce la faccio a lottare da sola con quel diavolo, uh… Ma io me ne vado, così poi puoi sputacchiare su tutto quello che vuoi, perfino sulle pareti. Prendo i ragazzi e vado a mendicare. Qui non ci torno più”.
Fu come se un enorme uccello nero avesse improvvisamente coperto il sole con la sua terribile ala. I due che occupavano la panca gettarono uno sguardo imbarazzato alle fessure tra le tavole del pavimento. Alla fine, Anselmi non ce la fece più e, borbottando qualcosa sottovoce, uscì dalla stanza.
Konsta sudava. Di tutte le cose al mondo, quello che sopportava meno era il pianto di una donna. Il suo cervello lavorava febbrilmente alla ricerca delle parole giuste per calmare le acque. Ma, per quanto si sforzasse, non gli venne in mente nulla… Cosa avrebbe dovuto dirle? O sarebbe stato meglio tacere? È un vero inferno ora che è montata in furia. Del resto, non l’aveva fatto mica di proposito, ma a volte è difficile capire quale sia il punto debole di un’altra persona. Oh, mio Dio, si lamenta come una gatta selvatica…
Konsta agitava nervosamente le mani. Iita era sopraffatta dal dolore… L’uomo tirò fuori dalla tasca la pipa, la mise in bocca, poi cambiò idea e la infilò dentro lo stivale. Lanciò un’occhiata incerta alla pila di vecchi giornali sulla mensola, ma il suo orgoglio gli impediva ancora di compiere il passo decisivo… Dopotutto, sarebbe stato un po’ imbarazzante per lui, già in là con gli anni, pulire il pavimento…
Il tempo passava lentamente, molto lentamente. Alla fine, il penitente chiese con voce grave:
“Ebbene… dove è questa carta, i giornali…”.
“Dove, dove? Come se tu non lo sapessi, dopo aver passato la giornata sdraiato sopra quei fogli, di cui ripeti le sentenze, eh… E invece non sai proprio un bel niente. Pensa di essere un sapientone, e invece…”.
Quest’ultima, greve accusa toccò Konsta nell’intimo. Normalmente non avrebbe lasciato che un’insolenza simile rimanesse senza risposta, ma ora non osò replicare. Iita semplicemente non sapeva cosa stava dicendo dandogli del cretino. Dopo tutto, non era la prima volta che lo insultava in quel modo. Quando si arrabbiava, diceva sempre qualcosa di sconsiderato.
Si alzò dalla panca, con un’espressione di insofferenza, ma allo stesso tempo con umile rassegnazione. Afferrò con rabbia uno dei giornali dalla pila, lo accartocciò e cominciò a pulire il pavimento. Ma che fatica! In effetti, avrebbe pulito volentieri di sua iniziativa, ma non riusciva a capire perché Iita avesse tirato in ballo anche Anselmi in quel loro diverbio. Perché se l’era presa anche con lui?… Aveva avuto la sua parte, poverino, senza nemmeno sapere il perché… E poi per una quisquilia! Per un goccetto di saliva, che poi non è altro che un prodotto della natura. È vero, non avrebbe dovuto farlo, ma provate voi a desistere quando vi spunta uno scarafaggio tra i piedi. Tutta colpa di quell’animale…
“E… dove metto questa carta?”.
“Dove, dove… dove si mettono le carte sporche? O me la vuoi regalare come souvenir? Ma vuoi proprio tormentarmi… oh, cielo!”
Solo ora Iita iniziò a piangere per davvero, lacrime copiose e strazianti. L’impaurito Konsta Pylkkänen stava per gettare il giornale sporco nel secchio con cui abbeveravano le vacche, ma all’ultimo momento, rendendosi conto che la cosa avrebbe potuto arrecare un danno ancor maggiore, si affrettò a gettare quella pallottola lercia nella stufa.
Solo ora Konsta si sentì davvero dispiaciuto per lo stato in cui era caduta Iita Havukka. In fondo, lui non era una cattiva persona, ma aveva solo i modi primitivi di chi è cresciuto nei boschi. Per di più, il fardello dei suoi pensieri gli faceva spesso dimenticare le cose del mondo esterno e le questioni di poco conto. Era sì un po’ sbadato, ma sensibile…
Si sedette sulla panca accanto a Iita.
“Senti, Iita. Che tu ci creda o no, non ho sputato di proposito. E comunque non volevo assolutamente stuzzicarti per puro divertimento. Al contrario, mi sono preso paura quando sei scoppiata a piangere in quel modo. Ti prometto che non sputerò più per terra, ti chiedo solo di ricordarmelo due o tre volte a settimana, così non me ne dimentico. E se dovessi sputare di nuovo, Dio non voglia, sgridami subito!
E ora perdonami, e facciamo pace, per sempre… Se smetti di piangere, ti compro un pacchetto di caffè, se ce l’hanno allo spaccio. Posso comprartene anche due se il mio socio mi dà l’acconto stasera, e mi porta i mille marchi… E non è forse vero che non ti ho mai fatto mancare uccelli, lepri e pesci? Che ti ho portato l’acqua e tagliato l’erba e non so cos’altro? Non sono un furfante, come sembra che tutti pensino…”.
(Foto del titolo: V. Huovinen, da Yle.fi. Per le foto utilizzate, siamo pronti a far fronte alle richieste di diritti)