Juhani Karila: La cattura del piccolo luccio

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Pienen hauen pyydystys (La cattura del piccolo luccio, 2019) di Juhani Karila (Kemijärvi, 1985 ) è un romanzo fantasy che fa parte del cosiddetto Finnish weird (Suomikumma), una derivazione del New Weird, arricchito da una serie di elementi locali e che include generi molto diversi tra loro, motivo per cui non corrisponde pienamente alla definizione univoca di questo genere. Il romanzo in questione non ha luogo in un ambiente urbano, presente o futuro, come la maggior parte dei testi Finnish weird, ma la città è vista soltanto attraverso la filigrana della natura lappone. Il fattore di straniamento dalla realtà è commentato ecocriticamente, con riferimenti, ad esempio, ai fenomeni provocati dal riscaldamento globale.

Nel romanzo, la Lapponia è separata dal resto della Finlandia da un confine reale, protetto dalle guardie di frontiera. Escludendo le creature fiabesche, la realtà del romanzo sembra molto simile a quella attuale, dove il tempo è ogni anno più imprevedibile e le temperature più alte rispetto all’anno precedente.

La storia si svolge nella Lapponia orientale, abbondante di paludi umide e zanzare.  

La protagonista della trama, Elina Ylijaako, è vittima di un sortilegio (per una storia d’amore fallita per cui incolpa se stessa), ed è costretta a catturare ogni anno, il 18 giugno, un piccolo luccio dalla palude di Seiväslampi. Quest’anno la pesca è ancora più difficile del solito per via delle inondazioni primaverili e dell’interferenza di varie creature, zanzare, troll, omini delle acque, ecc, che in questo romanzo di Juhani Karila vivono tra la popolazione locale.
Il romanzo ha ricevuto il Premio Kalevi Jäntti nel 2019, il Premio Jarkko Laine nel 2020 e il Premio assegnato dalla Società Science Fiction di Helsinki. L’opera ha avuto anche due messe in scena teatrali, la prima diretta da Lilja Fisher, la seconda con la regia e la drammaturgia di Janne Pellinen (da cui sono tratte le immagini utilizzate).

Asta Sveholm

La cattura del piccolo luccio

Primo capitolo

Siltala, 2019, pp.280

Una sfortunata catena di eventi aveva portato Elina a dover pescare un luccio dallo stagno ogni anno prima del 18 giugno.

La sua vita dipendeva da questo.

Si mise in viaggio il 14 giugno, quando al nord le acque delle inondazioni si erano ormai ritirate e lei, stivali di gomma ai piedi, avrebbe potuto raggiungere facilmente lo stagno. Partì presto e guidò l’auto tutto il giorno. Più si allontanava, più le città, le stazioni di servizio e i villaggi lungo il percorso si facevano più radi e gli alberi sempre più bassi. Alla fine, non vi fu più traccia nemmeno dei paesini. Nient’altro che boschi.

Di tanto in tanto, dietro a una curva spuntava un’automobile nel senso opposto, che la costringeva a rallentare. I conducenti le facevano segno di tornare immediatamente indietro.

Al margine della strada, un cartello che avvisava dell’interruzione delle telecomunicazioni tra una quarantina di chilometri.

Elina arrivò all’area di confine, una striscia di terreno libero larga una cinquantina di metri. Al centro, troneggiava la cabina bianca di guardia, con la sbarra a bloccare la strada. Elina vi si accostò.

Una guardia di frontiera dall’aria annoiata, in uniforme grigia, si affacciò dal finestrino aperto del cubicolo. Sotto le braccia aveva delle macchie scure di sudore. Nella cabina ronzava un ventilatore da tavolo. Elina abbassò il finestrino e la salutò. La guardia proruppe in una litania. Disse che il governo finlandese non consigliava di proseguire. Se Elina l’avesse fatto, però, tutte le polizze assicurative avrebbero cessato di essere valide e lei sola sarebbe stata ritenuta responsabile di qualsiasi inconveniente.

– Ma io sono di qui, spiegò Elina.

La guardia tese la mano. Elina consegnò la carta d’identità, che la guardia ispezionò guardando Elina e poi di nuovo la carta, prima di restituirgliela e chiedere se non fosse già passata di lì altre volte.

– Sì, confermò Elina.

– Fa un caldo infernale, disse la guardia. Si voltò a guardare il termometro sulla parete del cubicolo. – Ventotto gradi all’ombra, gridò quasi.

– Oh.

– Mai andare a lavorare per il governo, ammonì la guardia.

– Ok.

– Beh, buon viaggio, allora.

La guardia sollevò la sbarra, Elina alzò la mano per ringraziare e proseguì.

Dopo la zona di confine, i lati della carreggiata si ripopolarono di boschi. La strada era vuota. Elina poté dar sfogo all’acceleratore.

Sentì una fitta all’alluce del piede destro, rotto durante uno scontro.

Superato il Circolo Polare Artico, Elina iniziò a guardare nello specchietto retrovisore e a osservare il bordo strada. Se vedeva qualcosa di scuro sul ciglio, rallentava fino a quando non era sicura che si trattasse di ceppi o radici. Accese la radio. Ogni canale riportava le notizie del caldo record, degli incendi e delle inondazioni.

Di tanto in tanto, accostava ad uno slargo, si voltava verso il bosco e rimaneva in silenzio con gli occhi chiusi. Immaginava che ci fossero due barre davanti a sé, che si alzavano e si abbassavano seguendo il ritmo del suo respiro. Su e giù.

A ogni sosta, il numero di zanzare si moltiplicava.

Superò Kuikkaniemi senza nemmeno volgere lo sguardo verso la riva del fiume. Il paese spuntò d’improvviso in mezzo al bosco come un sogno, e come un sogno scomparve. Arrivò a Vuopio alle dieci di sera. Il sole era ancora alto e colorava il mondo del giallino dei vecchi giornali. Svoltò a destra verso il ponte, percorrendolo lentamente. L’ampio fiume luccicava. Raggiunto l’altra sponda, svoltò a sinistra, percorrendo la strada che portava alla sua casa natale.

Sulla sinistra, poco prima dell’ultima curva, l’abitazione di Asko ed Efraim, poi il capanno di Allocco. Le finestre erano buie. Elina prese l’ultimo rettilineo. Alla fine c’era un cartello: “Fine della strada pubblica”. Svoltò nel cortile di Ylijaakko. C’erano quattro edifici. La vecchia sauna, la casa d’infanzia di suo padre, la cosiddetta casa vecchia, l’abitazione principale e il fienile. Una fila di alti pioppi costeggiava il vialetto. Parcheggiò davanti al fienile e scese dall’auto. Sentì il ronzio delle zanzare e la melodia ebbra del tordo sassello. Il chiacchiericcio della peppola, piatto e come stanco della vita. Un pino si ergeva a margine del declivio, tra la vecchia sauna e il fienile, come una torre di guardia al confine tra due mondi, la terraferma e la palude, proteso verso quest’ultima, che giaceva con umida pazienza ai piedi del rialzo.

Al mattino, Elina fu svegliata da un forte rumore. Si alzò dal letto, guardò dalla finestra e vide un cuculo, appollaiato sul pioppo, che gridava il suo verso scandendo l’ora ai vivi. Non aveva mai visto un cuculo così da vicino. Quando si avvicinò alla finestra, l’uccello si zittì per poi spiccare il volo.

Guardò il pioppo ora vacante e pensò al compito che quel giorno l’attendeva, la cattura del luccio.

Elina aveva dormito nella sua vecchia stanza, che conteneva il letto, una libreria, un tavolo e una sedia. Nient’altro. Aveva dato tutto il resto ad Allocco.

Si sedette sul bordo del letto. Si passò il palmo della mano tra i capelli, rasati con la macchinetta, che aveva lasciato soltanto una stoppia di tre millimetri.

Il taglio dei capelli faceva parte del rituale.

Raddrizzò la gamba destra ed esaminò l’alluce, nero e gonfio. L’aspetto era peggiore del dolore che le provocava. Bisognava fare qualcosa.

Zoppicando, si avviò per il corridoio. A sinistra c’era il soggiorno, alle cui pareti Allocco aveva appeso le mappe degli habitat degli uccelli, le loro rotte migratorie, tabelle e disegni dei piedi palmati delle anatre. Si diresse a destra, in cucina. Sul freezer c’era il numero di Lapin Kansa della settimana prima, ne strappò una striscia e l’avvolse intorno all’alluce dolorante e al dito sano accanto. Trovò un paio di forbici nell’armadio e tagliò un pezzo di nastro adesivo, sistemò bene la carta sulle dita e avvolse il tutto col nastro. Un pacchetto solido e compatto.

Rimise le forbici nell’armadio, sulla cui anta c’era una cartina del terreno circostante, su cui Allocco aveva tracciato a matita i luoghi in cui si era imbattuto nei gaglioffi.

Elina lasciò che il caffè sgocciolasse tutto, aprì la finestrella di ventilazione e  guardò fuori. La sera prima non aveva mangiato nulla, ma era una cosa normale. L’appetito era sempre la prima cosa a scomparire. In cortile, c’erano gli stessi uccelli a far baccano, come quindici anni prima. Cesene, cutrettole, rondini. Sembravano gli stessi uccelli, ma erano diversi. Popolavano il cortile, gli alberi e gli edifici. Se si guardava fuori, pensando solo agli uccelli, li si vedeva dappertutto. Le rondini volavano come aerei a reazione attraverso le finestrelle della soffitta del fienile. I tordi saltellavano uniformemente. A volte rimanevano immobili in un punto e bisognava strizzare gli occhi per capire se si trattava di un uccello o di una zolla.

Bevve il caffè e si sentì come un guscio fragile. Una volta suo padre si era seduto proprio in questo punto, a fare le parole crociate, e aveva sentito dei graffi di artigli sul pavimento. Abbassato lo sguardo, aveva visto una donnola, che l’aveva guardato negli occhi come se fosse stata lei la vera proprietaria della casa.

– Come fa una creatura del genere a sapere dove sono gli occhi? si era chiesto papà.

Al funerale della madre, Elina aveva chiesto al padre perché avessero costruito la casa nei pressi della palude. Il padre le aveva risposto che la sua famiglia aveva sempre vissuto in quel luogo e che alla madre quel luogo piaceva particolarmente.

Prima di sposarsi, aveva esaminato attentamente la zona. Aveva disegnato una mappa dell’area, tracciando anche la loro futura casa, questa casa, orientata in direzione est-ovest, in modo che l’abitazione si estendesse sulla Lapponia come una livella. La mamma aveva spiegato che in questo modo l’edificio avrebbe completato il disegno delle altre parti già presenti nel paesaggio. Il fiume, i boschi e le colline.

Suo padre aveva fissato la moglie, quella donna minuta, con i capelli corvini corti e occhietti neri come il carbone che non riflettevano la luce.

– Aha, aveva detto papà. – Faremo così.

Avevano costruito la casa insieme, lunga e a un piano, molto diversa dalle altre case del villaggio, che avevano uno stanzone con un forno a legna al centro. Questa casa non aveva nessuna stanza del genere. Il cucinino, dove Elina sedeva al tavolo, era allocato nel corridoio che attraversava la casa, con il soggiorno all’estremità ovest e il locale con la stufa all’estremità est.

– Come la cabina di pilotaggio e il motore, le aveva detto il padre quando era piccola.

– Ti abbiamo fatto un’astronave.

Di notte, Elina rimaneva sveglia a letto, e ascoltava i rimbombi che provenivano dalle pareti e dal soffitto. Immaginava che quei colpi provenisse dai motori dell’astronave, che spingevano la navicella in avanti, nell’oscurità. In realtà, il rumore era prodotto dai topi che correvano negli interstizi delle pareti. In dieci anni, i roditori ne avevano già divorato quasi tutto il materiale isolante, tanto che in inverno suo padre era costretto a portare continui carichi di legna da ardere, dalla mattina alla sera.

Henri Tuominen

In estate, i topi venivano avvelenati e catturati con le trappole. Una volta il suo papà aveva costruito una trappola scavando una buca nel terreno lungo il tragitto percorso dai topi. Aveva sistemato nella buca un barattolo di sottaceti vuoto, riempiendolo a metà con l’acqua, in modo che quelli che passavano da lì cadessero nel barattolo. Al mattino, la mamma raccoglieva i topi annegati dai barattoli e dalle trappole e ne gettava le carcasse sulla sommità della cantina interrata, coperta da un terreno gibboso, tra gli equiseti e i cespugli di lamponi.

All’imbrunire, Elina, mamma e papà andavano a sedersi nella sauna e osservavano dalla finestra le civette e le ulule arrivare dai campi della selvaggina per poi posarsi sulla cima tondeggiante della cantina.

Tutte ciò che aveva fatto le ritornò d’un colpo alla mente.

Gli uccelli si zittirono.

L’orologio smise di ticchettare.

Il senso di colpa le svuotò i polmoni con una forza familiare e costante. Fiuuuu.

Poggiò la fronte sul tavolo. Vi batté più volte la testa.

– Cazzo, esclamò. – Cazzo. Cazzo. Cazzo.

Raddrizzò la schiena.

– Forza. Non cominciamo adesso.

Anne Syysmaa

Si alzò e fece avanti e indietro per la cucina. Alzò le mani e, dita allargate, le scrollò davanti a sé, come se avesse ricevuto una tremenda scossa elettrica.

Si sedette per terra. Si inclinò su un fianco, cadde. Si raggomitolò nella posizione fetale. Nessun sollievo. Si alzò in piedi. Andò in soggiorno. Guardò fuori da ogni finestra e tornò in cucina. Scosse la testa.

– Cazzo. Ma che cazzo!

Prese una matita dal tavolo e si chiese se avrebbe potuto spezzarla in due. La rimise sul tavolo. Aveva promesso ad Allocco che non avrebbe rotto altri oggetti. Premette la fronte contro la porta del frigorifero. Era fredda. Sollevò la testa e la sbatté contro il frigorifero con tanta forza da far tintinnare i barattoli di vetro sui ripiani.

– Dannazione, disse, tenendosi la testa. – Dannazione dannazione dannazione.

Si mise a ridere, si diresse verso lo specchio e disse:

– Stai solo morendo di fame. Mangia qualcosa.

Cucinò un po’ di farina d’avena e con un cucchiaio si imboccò lentamente, come se stesse posando della brace nel forno. Tornò nella sua stanza e indossò un paio di pantaloni mimetici di tessuto pesante, con le tasche sulle cosce. Annusò la camicia del giorno prima. Puzzava ancora di fumo. La gettò nel cesto della biancheria, cercò nell’armadio una vecchia camicia grigia larga e la indossò. Andò nella riposteria a prendere il repellente per le zanzare e se lo strofinò sul viso, sul collo e sulle mani.

Trovò gli stivali di gomma nella stanza della stufa, li infilò, prese un berretto dall’attaccapanni e se lo mise in testa, aprì la porta e uscì.

Erano le nove del mattino, ma le api e i tafani, storditi dal caldo, già ronzavano lentamente nel cortile, senza una direzione precisa. Erano seguiti dalle libellule, a loro volta rincorse dalle rondini. In fila, sul muro del fienile, i mosconi lucidi come il metallo si crogiolavano al sole.

Entrò nel fienile per cercare le canne da pesca.

Lì dentro si stava al fresco. C’erano sciami di moscerini, deliziati di poter far colazione a letto. Sciamavano solleciti intorno a Elina, che li spiaccicava sulle braccia e sul collo.

Cercò di muoversi di continuo. Cosa che l’aiutò ad allontanare sia le zanzare sia i pensieri che aspettavano solo un momento di pausa per assalirla.

Asta Sveholm, foto di Antti Sepponen.

Era determinata a pescare subito il luccio dallo stagno. Cercò le canne nell’angolo tra gli sci, senza successo, e allora guardò tra i paletti e sotto le mangiatoie degli uccelli e dietro i motorini. C’era un sacco di roba dappertutto. Quando l’attività di scuoiatura era stata trasferita altrove, il suo papà aveva iniziato a portare nel fienile tutto ciò che non gli serviva quotidianamente. Un bel po’ di cose, perché negli ultimi tempi papà non aveva fatto altro che rimanere seduto in veranda, bere birra e fissare la palude.

In cima alla trave di colmo, c’erano i nidi delle rondini. Gli uccellini la guardavano e cinguettavano.

Andò verso il reparto stalla, i moscerini al seguito. C’era una vecchia caldaia, arrivata in cortile con l’alluvione. Papà l’aveva pulita e trasformata in un affumicatore per il pesce. Un tempo, in primavera, la gente del paese era solita trascinare varie cose che non servivano più sul ghiaccio, lasciando che il fiume le portasse a valle, in modo che diventassero una seccatura per qualcun altro. Sul fondo del fiume erano depositate tonnellate di scarti. Water, frigoriferi, congelatori, automobili.

Trovò una canna da casting sotto le coperture per la vegetazione. C’era anche un pacchetto di esche con l’amo, probabilmente di Allocco.

Non trovò da nessuna parte la canna da spinning. Quella sarebbe stata la sua prima scelta, in quanto la si poteva lanciare con una mano sola ed era ottima per esche leggere, come i cucchiaini artificiali da dieci grammi e le esche Rapala ultraleggere. L’impugnatura lunga della canna da casting era in sughero, sgretolata in alcuni punti, mentre a metà della canna era stato avvolto del nastro adesivo, poiché una volta si era rotta.

Elina provò a piegarla. Sembrò resistere.

Sarebbe bastato.

La lenza aveva già il piombino, piegato dai morsi dei lucci. Elina aprì il pacchetto, scelse un popper da nove centimetri e lo attaccò alla mosca. Mise qualche altro cucchiaino, qualche spinner, e un plugo piccolo nella vecchia custodia degli occhiali e la infilò nello stivale. Uscì nel cortile e guardò le nuvole bianche. Si muovevano pigramente nel cielo come angeli mutanti. Sarà una bella giornata, pensò.

Si sbagliava di grosso.

(Le immagini utilizzate, quando non altrimenti indicato, sono di Kati Leinonen, tratte da https://teatteri.ouka.fi/. Per i diritti d’autore siamo pronti a far fronte ad eventuali richieste)