Sono nata in una famiglia in cui entrambi i genitori sono traduttori, e, pur non avendo mai sviluppato un interesse specifico per questo o per altri campi umanistici, sono stata abituata fin da piccola a riflettere, in qualche modo, sul tema della traduzione. Se per i miei genitori tradurre significa trasporre il significato di un testo scritto da una lingua all’altra, per me il concetto di traduzione si estende al continuo destreggiarmi tra le tre lingue che conosco meglio (finlandese, ceco e italiano), alle quali, nel corso degli anni, si sono aggiunti anche l’inglese, lo svedese e il tedesco.
Pur non occupandomi direttamente di traduzione, capita talvolta che i miei genitori mi chiedano il significato di particolari espressioni che trovano difficili da comprendere. Credo che in questo mi aiuti molto la mia conoscenza approfondita di più lingue, che spesso mi consente di cogliere anche espressioni provenienti da dialetti con influenze finno-svedesi, come ad esempio il tornedaliano (mäenkieli), o il careliano, che presenta influssi slavi.
Ho avuto più volte l’opportunità di riflettere sulle questioni extralinguistiche legate alla traduzione. Un esempio recente è la traduzione del romanzo Tunturi uhkaa (“Vita e morte di un sámi”) di E. N. Manninen, in cui c’è una scena in cui il prete, durante il sermone, è accompagnato da un traduttore sámi: Il vecchio maestro non traduce in sámi parola per parola, la differenza di lingua richiede adattamenti e spiegazioni. E non importa se aggiunge qualcosa di suo. Ravviva il discorso rendendolo più comprensibile per questa gente ostinata e dura di cuore.
Già in questa breve citazione, si può imparare l’essenza del processo traduttivo, e la possibilità di “aggiustamenti” relativi alla situazione specifica in cui questo processo avviene.
Altre volte, la questione traduttiva può riguardare parole e realia specifici. Ad esempio, in una traduzione inglese, si discuteva della traduzione della parola “suo” (che in finlandese può essere espressa, a seconda del tipo, con rimpi, aapa, korpi, neva, letto, jänkä, räme) e se fosse più giusto usare “swamp” (palude con alberi), “bog” (palude con muschio) oppure “marshes” (palude con piccole piante). Ho da tempo imparato come la ricchezza di una lingua in un particolare campo sia dovuta a questioni sociali e culturali, e in definitiva a quello che un popolo ritiene più importante per la vita quotidiana (un po’ come le denominazioni dei diversi tipi di pasta in italiano).
Si sente spesso l’espressione “Lost in translation”, utilizzata per evocare l’idea di un significato che sfugge nel momento in cui si tenta di trasporre un’espressione o una parola da una lingua all’altra, con tutte le inevitabili perdite di sfumature. Per me, tuttavia, “perdersi nella traduzione” significa soprattutto intraprendere un viaggio introspettivo, immergersi nel labirinto del linguaggio, dove le parole non sono solo simboli, ma veri e propri contenitori di cultura, emozioni e pensieri. Questo viaggio non riguarda tanto le difficoltà esterne legate al trovare equivalenti linguistici, ma l’odissea interiore di comprendere come il linguaggio modella la nostra percezione della realtà.
Conoscere più lingue rende questo viaggio interiore ancora più affascinante, perché da una posizione privilegiata si può osservare il mondo attraverso diverse prospettive linguistiche. Questo permette di cogliere le sottili sfumature e i contesti culturali racchiusi nelle lingue, oltre a connotazioni che vanno ben oltre le semplici definizioni del dizionario: significati storici, valori sociali, cariche emotive. In questo modo, si favorisce una maggiore empatia e comprensione tra le diverse lingue e le culture che rappresentano.