Al cinema Lucerna di Praga, si è tenuta l’undicesima edizione del MittelCinemaFest, il Festival mitteleuropeo del Cinema Italiano. Il venerdì, il festival ha presentato due nuove pellicole che avevano delle similitudini: entrambe ambientate a Roma e con protagonisti che sono attori, autori e registi dei loro film. Tuttavia, le affinità finiscono qui.
Il primo film, intitolato “Enea”, ha debuttato alle 18:30, riscontrando una partecipazione scarsa, forse non soltanto a causa dell’orario anticipato. Dal programma del film apprendiamo che “Enea, insieme a Valentino, un aviatore novello, insegue il mito del proprio nome per sentirsi vivo in un’epoca decadente e moribonda”.

I registi evocano il mitico Enea troiano, che dopo la distruzione della sua città vagò per il mondo prima di approdare in Italia, dando origine a una stirpe che culminò nei fondatori di Roma. Mentre Omero dedica a Enea una menzione marginale nell’Iliade, Virgilio lo celebra come protagonista di un’epopea. Il nome Enea in greco antico deriva probabilmente da αἶνος, nel significato di “terribile”, il che ci riporta al film in questione.
Il protagonista, Enea, trentenne di buona famiglia, gestisce un ristorante di sushi a Roma. Tra discoteche e feste esclusive, sniffa cocaina con l’amico Valentino, vivendo apparentemente felice. Ma la sua vita cambia quando si innamora di Eva e, insieme a Valentino, pilota gay di piccoli aerei, accetta l’offerta di uno spacciatore più anziano di aiutarlo a vendere la cocaina in cambio di una parte del ricavato.
Questo renderà la vita molto più difficile per il duo di astuti faciloni. Il boss della droga viene poi ucciso da un rivale, un “cattivo” del tutto improbabile che dà la caccia anche alla coppia di ragazzi spacciatori.
Nel finale, tuttavia, vediamo un Enea sorridente, con i proventi delle vendite di droga, sposare una Eva incinta in un matrimonio sfarzoso, mentre Valentino, con la madre depressa, si era schiantato con un aereo contro il piano di un grattacielo dove aveva sede l’attività del boss che voleva Enea e lui morti. In un’esplosione da 11 settembre, soccombono anche il pilota drogato e sua madre. Chi non vorrebbe avere un amico altruista come Valentino?
L’improbabile sceneggiatura del film, ben poco reale, è ad opera dell’attore trentunenne Pietro Castellito, che ha anche interpretato il protagonista, Enea, e diretto il film. Il ruolo del padre di Enea, uno psicologo, (che cerca di controllare i moti d’ira visitando ogni giorno un albergo, dove rompe, dietro compenso, tutti i vetri, dagli specchi al lampadario alla lampada sul comodino) è stato affidato al vero padre del protagonista, il noto attore Sergio Castellito.
Enea è il secondo film da regista di Pietro Castellito. A parte la superficialità generale e la trama spasmodicamente confusa, Enea si distingue per l’eccellente fotografia di Radek Ladczuk. Per il resto, dà l’impressione di essere stato messo insieme come i pezzi disparati dei vari cadaveri dal Dr. Frankenstein (l’estetica da videoclip, le canzoni pop, elementi di distrazione in ogni scena, che, pur essendo molto efficaci, sono per lo più autoindulgenti; le illogicità, la “storia” incompiuta e abbreviata, ecc. ecc.)
Il leitmotiv musicale del film è la canzone Spiagge di Renato Zero, protagonista del pop italiano. Nella scena dell’ospedale psichiatrico, Valentino (interpretato dal carismatico attore Giorgio Quarzo Guarascio) la suona al pianoforte per la madre. Tuttavia, adatta il testo in modo che nella sua interpretazione le spiagge siano piene di cocaina a basso costo tagliata con gesso. E quando Valentino sniffa dimostrativamente questa “prelibatezza” proprio durante la sua performance, ne nascono uno scandalo e un litigio con il direttore dell’istituto.
Ma forse è proprio in questa scena che si trova la chiave per capire Enea e il motivo della sua realizzazione: l’uso di stupefacenti, che però dà adito a un risultato ben poco stupefacente. Castellito sarà anche un discreto attore (anche se il suo volto smunto, con un naso prominente alla Cyrano di Bergerac e una mimica facciale ridotta al minimo, sembra un po’ senz’anima), ma le sue scorribande nel campo della scrittura e della regia sono ben poco convincenti.
Il suo evidente tentativo di confrontarsi con “La grande bellezza” del classico vivente Paolo Sorrentino ci sembra poco riuscito. E forse l’unica cosa che Enea ha in comune con l’eroe mitico è la tragedia di una grande caduta, come quella di Troia.

La seconda proiezione del venerdì alle 20.45 ha registrato il tutto esaurito, e sono riuscito a ottenere un biglietto solo per la tribuna laterale. Il debutto alla regia dell’attrice Paola Cortellesi, C’è ancora domani, ha superato le aspettative. La Cortellesi (popolare conduttrice radiofonica, cantante e attrice) ha interpretato anche il ruolo di protagonista, oltre ad aver co-sceneggiato il film insieme a Gulia Calenda e Furio Andreotti.
E la mossa ha dato i suoi frutti, dal momento che il film è stato vincitore di tre premi al Festival Internazionale del Film di Roma, diventando anche il film italiano più visto dell’anno, titolo che merita giustamente, e con successo.
Anche in questo caso la storia è ambientata a Roma, nella fattispecie nell’anno postbellico 1946, quando le donne italiane poterono partecipare per la prima volta alle elezioni. Nel film, girato in bianco e nero (l’estetica delle immagini del direttore della fotografia Davide Leone evoca le commedie degli anni Cinquanta e Sessanta del cosiddetto neorealismo rosa di Luigi Comencini o le opere del camaleonte cinematografico e poeta Federico Fellini), all’inizio non c’è traccia di emancipazione femminile.
La protagonista Delia viene schiaffeggiata a letto dal marito, il rozzo e primitivo Ivano (Valerio Mastandrea, caratteristicamente privo di carattere), non appena si sveglia al mattino, perché il marito la incolpa del malfunzionamento dello sciacquone del bagno.
Oltre al marito (che giustifica maleducazione e nevrotismo con l’aver partecipato alle due guerre e il dover lavorare sodo), Delia si occupa della figlia adolescente Marcella (la bravissima Romana Maggiora Vergano) e di due marmocchi perennemente litigiosi. A questi si aggiunge il suocero allettato (interpretato dall’ottimo Giorgio Colangeli), antipatico e bisbetico, che ricorda con trasporto i bei tempi andati, i fascisti, che considera persone perbene ed eleganti, pronte a comprare da lui, tra l’altro, oggetti provenienti da tombe depredate, e per di più si rivela anche un fan dell’incesto: al posto di Delia, dice che il figlio avrebbe dovuto sposare la cugina perché era di famiglia, e non loquace come la moglie (sic!).
Poiché lo stipendio del marito copre a malapena l’affitto del loro squallido appartamento nel seminterrato (dove la mattina, quando aprono la finestra, arriva l’odore della strada anziché quello dell’aria fresca, e in più il tanfo dell’urina dei cani), Delia è costretta a darsi da fare per evitare che la famiglia muoia di fame nel loro povero quartiere romano. Oltre a ricamare e a fabbricare ombrelli, fa iniezioni a un vecchio avvocato malato, in quanto riesce a farle in modo quasi indolore e, insieme ad altre sfortunate, piega anche il bucato per i più benestanti.
Con i guadagni giornalieri di queste attività mette insieme i soldi per il cibo della famiglia e per i vestiti, mentre continua ad accumulare segretamente i risparmi per un abito da sposa per Marcella, che ha una relazione seria con il figlio del proprietario della pasticceria. Sposandolo, la figlia avrebbe garantito un futuro economico a se stessa, di cui avrebbe beneficiato anche la famiglia.
Le botte a Delia da parte del marito sono all’ordine del giorno, e per i motivi più futili, come portare a casa i cioccolatini che aveva ricevuto in regalo da un soldato americano come ricompensa per aver trovato per strada una foto della sua famiglia e avergliela restituita. Per il marito, anche questo è un motivo per picchiare Delia, perché è sicuro che si sia comportata come una donna frivola di bassa lega, altrimenti non avrebbe ricevuto nulla dall’americano. Tuttavia, le scene di violenza coniugale sono in parte stilizzate in una coreografia di danza accompagnata da una musica romantica con testi amorosi, che risulta scanzonata e ironica.
Nonostante il destino feroce e apparentemente senza speranza della protagonista, questa scelta stilistica permette al pubblico di ridere, anche grazie ai dialoghi brillanti, naturalistici e scoppiettanti, senza esagerazioni, che riflettono vividamente l’atmosfera dell’epoca, in cui le donne erano ridotte a stereotipi: madri, amanti, donne di vita, cuoche, cameriere e addette alle pulizie; quando, cioè, venivano trattate come stracci dai “maestri artisti”.
Tra l’altro, la costante giustificazione della violenza subita viene amaramente rimproverata a Delia (piuttosto ingratamente) dalla stessa figlia. Tuttavia, non vale la pena di rivelare di più dell’eccellente tragicommedia C’è ancora domani. Forse solo che, nonostante i travagli e le vicissitudini della protagonista, si conclude con un sorprendente lieto fine. Il film è sicuramente un gioiello da non perdere.
Traduzione di Antonio Parente. Le recensioni originali (qui riportate in una versione adattata) sono state pubblicate sulla rivista Pražský patriot
La foto del titolo è adattata da wikipedia.