La mostra curata da Gabriella Belli e Valerio Terraroli è stata originariamente allestita al Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto col titolo “Realismo Magico: l’incanto nella pittura italiana degli anni Venti e Trenta”. Arrivata a Helsinki la mostra, e non è la prima volta, cambia titolo, assumendo un tono scanzonato e vacanziero: “Fantastico!” Agli italiani ricorda un celebre show televisivo, che al suo centro aveva un personaggio di nome Carrà, ma non era il pittore della mostra.
È un fatto, più volte registrato, che quando arriva in Finlandia l’arte italiana perde qualcosa della sua identità storica. E dispiace soprattutto quando, come in questo caso, la mostra è di alto livello. Per la completezza della proposta, la ricchezza e la qualità delle opere presentate, e la loro rarità. Si tratta di una selezione di capolavori provenienti da importanti collezioni pubbliche e, soprattutto, private. Significa: ci sono opere che nessuno di noi potrebbe mai vedere, se non qui e ora in questa mostra. Onore dunque soprattutto a Gabriella Belli, che di questo sottile e tenace lavoro di tessitura è stata artefice. Si tratta della seconda presentazione sistematica di questo periodo, dopo l’antologica curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco tra il 1988 e il 1989 per la Galleria dello Scudo di Verona.
La definizione Realismo Magico descrive una stagione artistica internazionale che ha conosciuto la sua fase più creativa e originale tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento.Qui il termine “realismo” si accompagna a un aggettivo che evoca atmosfere sospese e surreali. La realtà è infatti punto di partenza di una trasfigurazione che passa attraverso l’immaginazione e la meraviglia, messa in atto da artisti noti, tra cui Cagnaccio di San Pietro, Felice Casorati, Antonio Donghi, Achille Funi, Carlo Levi e Ubaldo Oppi. Altri sono meno noti, perché attivi nelle realtà più locali dell’arte veneziana, triestina, torinese e romana, e tra questi Mario e Edita Broglio, Leonor Fini, Arturo Nathan, Carlo Sbisà, Gregorio Sciltian, Carlo Socrate e Cesare Sofianopulo.
Non si tratta di un movimento artistico, ci spiega Valerio Terraroli, né di un’estetica riassumibile in un manifesto. Non ha una fonte comune di ispirazione, una figura emblematica. È, sostiene il professore veronese, piuttosto «un modo di sentire, una scelta alternativa di percepire, leggere e interpretare il contingente, la quotidianità». Non è indubbiamente un gruppo compatto come il Novecento di Margherita Sarfatti, non è il Ritorno all’ordine antimodernista e arcaicizzante sostenuto da “Valori plastici” e neppure l’estensione della metafisica di de Chirico e Carrà. È meglio parlare di un «insieme di modi, per non dire di formule, in cui sono coinvolte anche personalità alle quali si riconoscono modalità espressive diverse, più o meno ispirate al novecentismo, alla Metafisica, al Surrealismo, ma che presentano affinità e contaminazioni con questa grammatica espressiva».
Questa dimensione, l’hic et nunc, è una delle chiavi di lettura di quest’arte. E parola chiave è incanto, «componente essenziale della loro quieta narrazione, tra vita sospesa e quotidianità mai consumata, tra tensione al divenire e attrazione per il tornare o, meglio sarebbe dire, per lo stare eternamente» (Gabriella Belli).
Di questa breve stagione dell’arte italiana, che già negli anni Trenta può considerarsi conclusa, in mostra i capolavori ci sono quasi tutti. A cominciare da Felice Casorati: Gli scolari o il magnifico Concerto (1924) insieme con le enigmatiche Uova nel cassettone (1920) in cui riconosciamo il suo debito a Piero della Francesca. Un caso a parte è Carlo Carrà, un maestro che ha attraversato le epoche e i generi tra avanguardia e restaurazione, che sfiora il Realismo magico con pochi quadri, uno di questi Le figlie di Loth (1919) nel culto del primitivismo. Iconici il Giocoliere di Antonio Donghi (1936), le maschere di Gino Severini ormai uscito dal Futurismo, la coppia nuda di Cagnaccio di San Pietro, Zoologia (1928, foto del titolo).
Si tratta di artisti che subito dopo la Grande Guerra decisero di «fermarsi un momento » in seguito a quella che Maurizio Fagiolo dell’Arco ha descritto come «l’ansia dei cubismi e dei fauvismi, dei futurismi e degli espressionismi». Come spesso accade, per andare avanti si guardò dietro, al recupero della tradizione pittorica e scultorea italiana e nordica, che divenne strumento per imbastire nuove narrazioni del presente. Così che il movimento futurista fu sostituito dall’immobilità, dalla luce enigmatica, dal silenzio. Era incominciato il viaggio nei secoli passati, fino al Rinascimento e ai “primitivi” italiani.
Piero della Francesca, “Madonna della Misericordia” 1445 ca. – F.Casorati, “Ritratto di Silvana Cenni” 1922
Altre parole chiave ci vengono in mente, osservando le figure presentate sulla scena. Che siano clown o famiglie per bene o amanti avvinghiati tra le lenzuola, un carattere che li accomuna è una noia esibita. Noia, come quella di certi personaggi di Moravia, o la noia dello stesso autore degli Indifferenti (che uscì appunto nel 1929). Arbasino racconta di Moravia che per sottrarsi appunto a un tedio opprimente usciva dal caffè Aragno contando «le macchine che passavano sul corso in un’ora». Col pensiero a quel romanzo, un’altra parola mi pare accomuni il testo e questi dipinti: gli oggetti, e la loro poetica. Negli Indifferenti noi “vediamo” Carla, «in piedi presso il tavolino della lampada, cogli occhi rivolti verso quel cerchio di luce del paralume nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e inconsistenti sparsi nell’ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità, ella provava col dito la testa mobile di una porcellana cinese…» Ed ecco che, nel grigio del salotto, improvvisamente si accende qualcosa. In Leo, l’uomo che guarda: « ‘Eh che bella bambina’; egli si ripetè ‘che bella bambina’. La libidine sopita per quel pomeriggio si ridestava, il sangue gliene saliva alle guancie, dal desiderio avrebbe voluto gridare.»
La passione, certo, non manca in questo mondo attonito. Ma sembra sempre che, dopo essere esplosa, sia anche finita, magari un attimo prima. I personaggi ci scrutano immobili, poi un attimo (un quadro) dopo li ritroviamo nudi distesi, come nei dipinti di Cagnaccio, eppure anche allora ci fissano, in un silenzio assordante. Così nella bellissima Arcadia di Primo Levi, una Maddalena come forse avrebbe potuto dipingerla Caravaggio se la sua modella, la Penitente, non si fosse assopita. Qui la ritroviamo appena ridestata dal suo torpore, in una accattivante versione ermafrodita, ma avendo accanto gli stessi monili e unguenti, mentre ci fissa, semplicemente.
Ho chiesto al professor Terraroli: che rapporto avrebbero queste opere col clima politico del tempo? Sono gli anni del fascismo montante. Mi risponde: «Vede, qui lei è il primo a farmi questa domanda. E mi ha meravigliato che la cosa non sia tenuta da conto. (Nemmeno nei pannelli didascalici che accompagnano la mostra, a dire il vero). Quando si osservano questi personaggi, spesso immoti, lo sguardo perso nel vuoto, va tenuto presente che in quegli anni non era facile esprimere le proprie opinioni. (Ricordiamoci che siamo negli anni del delitto Matteotti, del1924). Ma l’arte sa sempre esprimere il pensiero che circola anche senza parole, i sentimenti della gente che soffre in silenzio, il loro smarrimento. Come nel gruppo di famiglia in posa nel Battesimo (1930) di Donghi: è la perfetta famiglia fascista, tutti ben pettinati, obbedienti, muti.»
Lo sguardo che sembra rivolto verso di noi in realtà ci oltrepassa, mi viene da pensare, è puntato verso qualcosa alle nostre spalle, o verso l’alto. (Sguardi simili, penso ora, li ricordo in un grande film ambientato in quel periodo, nei primi piani dei protagonisti di Una giornata particolare di Scola). Come a seguire un segno lontano, un volo. Cosa guardino, ce lo suggerisce una bellissima tela di De Chirico, Ottobrata (1924).
Un palazzo rinascimentale, figure antiche, a piedi o a cavallo, guardano in cielo e puntano il dito. E là in alto scorgiamo appena una figurina volante, di spalle, che vola brandendo un bastone. La didascalia ci parla di Mercurio. A me pare una citazione di un maestro del ‘500, un grande irregolare toscano, Piero di Cosimo. Nel suo Perseo salva Andromeda (1510 ca.) troviamo la stessa figurina, ma è Perseo col caduceo di Mercurio che “arriva” in volo e plana sul dorso di un drago. Per salvare Andromeda. In De Chirico invece sembra che se ne stia fuggendo di gran carriera.
Un mondo senza dei. Che sia questa la malinconia dei volti della mostra? Che sia questa perdita la ragione di quegli sguardi interrogativi, a volte angosciosi?
E allora, viene da pensare, perché lo strano titolo della mostra qui in Finlandia: “Fantastico!”(con tanto di punto esclamativo). L’ho chiesto all’intendentti dell’Ateneum, Teijamari Jyrkkiö. Che significa? Mi ha risposto che avevano pensato a una parola tipicamente italiana, che alludesse a qualcosa di bello, che attirasse l’attenzione del grande pubblico. E poi il senso della Fantasia… Alla mia obiezione che in italiano “Fantastico” è un’etichetta abusata per vendere qualsiasi merce, mi ha fatto (garbatamente) capire che la promozione artistica non mi compete. Ma la mia stessa impressione l’ha avuta il professor Terraroli, che, mi ha confessato, ci aveva provato anche lui a discutere la scelta. Gli ho fatto presente che l’ultima grande mostra italiana al Museo Nazionale, con opere del Tosio Martinengo, pur presentando l’arte dei primi maestri del Caravaggio, era stata presentata come “Rinascimento. Adesso”, e le motivazioni erano state analoghe.
Poco corretto, mi permetto di dire. Perché un lavoro complesso come questo meriterebbe un maggiore scrupolo filologico. L’ossessione dei finlandesi per la precisione in tanti settori delle scienze e delle pratiche umane a volte si affievolisce, davanti a cose italiane, come se la mollezza che il belpaese evoca fiaccasse in loro la spina filologica. In effetti, intervistata per “Helsingin Sanomat”, la stessa intendentti ha dichiarato, riferendosi alle opere di Donghi: «È così bello quando siamo in Italia. Non è vero che l’incanto della dimensione quotidiana di questi dipinti è lo stesso che troviamo anche noi quando siamo in Italia in vacanza? » Ecco, le vacanze romane.
Gabriel Garcia Marquez una volta, in un’intervista del 1987 per la RAI, disse seccamente: «Non accetto la definizione di realismo magico.» Ma allora, gli fu chiesto, lei che tipo di scrittore è? « Un realista. Ma un realista triste.» E perché triste? «Noi dei Carabi, abbiamo fama di essere gente allegra molto aperta. Invece siamo la gente più chiusa, più ermetica, e più triste che ci sia.»
Sostituite l’Italia ai Caraibi, e poi raccontatelo all’intendentti. Ma ho paura che lo troverebbe fantastico!
PS: A proposito del catalogo, e delle didascalie della mostra stessa, una domanda: è giusto tradurre i titoli nelle tre lingue del pubblico di destinazione (inglese, finlandese, svedese) senza dare anche i titoli originali in italiano? Qualcuno dovrebbe saperlo che fanno parte dell’opera, della sua identità storica.
Museo Ateneum
La Rondine – 10.5.2018