L’etnonimo karjalainen, “careliano” suona come appare: un urto di spada e sciabola dal quale echeggia tutto il peso lacerante della storia di una regione stiracchiata tra due litigiosi imperi. Sebbene un prestito del neologismo karelianismi, brillante creazione di Yrjö Hirn, abbia portato anche in Italia quella ventata d’infatuazione romantica per una “finnica età dell’oro” della quale la Carelia era come Goa per gli hippie o la Val Brembana per un leghista, oggi in Europa pochi sanno cos’è un careliano, che lingua parla e se si ciba d’altro oltre al consueto karjalanpiirakka (preferibilmente con ripieno di riso e non di patata).
Quanto al bere, di sicuro è un consumatore della birra Karjala, per non parlare di quel robusto vino di bacche, il Karjalaviini, che da anni ha tristemente abbandonato le cantine di Alko. Il lessico conviviale, è risaputo, non ha pietà neanche delle tragedie di guerra: a Helsinki, per ordinarne due calici, si era usi chiedere al cameriere pari evakkoo tähän pöytään, “due sfollati al tavolo” come se, in un ristorante di Trieste, ci offrissero una bottiglia di Terrano consigliando l’annata del ’45, la migliore per l’esodo istriano doc. Il mito del profondo Nordest è ormai più un luogo della mente che uno spunto di riflessione sul passato, ma tant’è: chiunque avvertirà in sé quella pulsante schiettezza rusticana di frontiera, sarà legittimato a liberare con orgoglio il careliano che è in lui. A vot! (m.g.)