Arto Salminen: La teoria della merda

Paskateoria

WSOY 2001; 2010, 88 pp.

Romanzo

Brillante e feroce critica sociale piena di umorismo (soprattutto nero) al limite del grottesco, e dialoghi che spesso sconfinano in caricatura.

Antti Suurnäkki è il redattore di un giornale della sera, cosciente di come la regola principale del mestiere imponga di sfruttare o essere sfruttato. Mostra, però, anche una parvenza di spirito etico quando rifiuta l’indecente proposta di un pilota di una formula minore, il quale vorrebbe farsi pubblicità dimostrando la sua generosità innata portando in giro nella sua macchina da corsa i bambini malati del reparto di oncologia, naturalmente alla presenza dei media.

La concorrenza invece non si fa scrupoli, e senza il minimo senso etico pubblica questa e simili notizie. Va a finire che il direttore lo chiama per fargli una lavata di testa, spiegandogli chiaramente che in questo lavoro con la sensibilità non si va lontano.

Arto Salminen

(Helsinki 1959 –  Hausjärvi 2005)

Scrittore di culto, svolse diverse professioni, che poi hanno fatto da sfondo ai suoi romanzi. Nel primo, Turvapaikka (1995) la storia è ambientata in un Centro di accoglienza; in Varasto (1998) si passa ad un deposito di vernici; in Ei-kuori (2003) fa riferimento alla sua esperinza come tassista.  Lahti (2004) ha al suo centro un campo militare dove maiali giganteschi sono bersagli nelle esercitazioni di tiro. Kalavale (2005) ha come ambiente narrativo un reality televisivo.

Il suo romanzo più conosciuto è probabilmente Paskateoria (2001) in cui dà voce ai redattori di un tabloid, ambiente a lui ben noto, avendo lavorato per qualche tempo in un giornale della sera come redattore sportivo.

Lo stile di scrittura da lui creato è stato definito “realismo della ripugnanza”, e anche la sua satira non è mai conciliante o piacevole e non sfugge a forme volgari, ma è sempre acuta, precisa, arguta e spassosa.

La teoria della merda

Al lavoro, la giornata iniziò con la riunione di redazione, per la quale era richiesta la presenza di tutti; la Lemmetty, però, veniva spesso in ritardo in quanto le toccava ripulire il tavolo da poker che i biscazzieri usavano durante il turno di notte.

Il banco durante la notte cresceva a tal punto che i contanti venivano sostituiti dalle cambiali, o meglio da una sorta di banconote caserecce, dei fogli strappati dai block notes con la scritta: “Per questa Kössi pagherà cento” o semplicemente “Repe 50”. Con l’avanzare della notte chi era in perdita riusciva a riprendersi e a tornare a vincere, e così le banconote di Kössi e Repe, ormai inutili, venivano strappate. Ed entravano in gioco altre valute pregiate, “Mauri paga 50” e “Hasse paga 200”. Fino a quando non era di nuovo il turno di Kössi di rimettere in circolazione la propria moneta.

Dopo la lunga notte, il pavimento era zeppo di pagherò strappati, che i redattori della rubrica dei pettegolezzi, quando iniziava il loro turno del mattino, ripulivano con grandi gesti scuotendo la testa.

“Che lerciume. Come se non avessero fatto altro che strappare i biglietti della lotteria l’intera notte”, sospirò la Lemmetty.

“Hanno fatto anche quello,” disse il caposervizio. “Lascia perdere e vieni in riunione. Cos’è, far le pulizie a casa non ti basta più?”

Il caporedattore si chiamava Juurakko. Si sedette in capo al tavolo delle riunioni e si sporse in avanti, protendendo le braccia tese sul tavolo. Forse qualcuno gli aveva suggerito questa posa per esaltare la sua autorevolezza. Indossava sempre la camicia bianca con la cravatta, ed esibiva una voce profonda e un’espressione colta in qualche lontana contrada, alla quale s’era affezionato.

“Allora,” esordì, “nuovo giorno e numero nuovo. Che riusciamo a mettere insieme oggi?”

“Lemmetty ha roba scottante,” intervenne il caposervizio. “Giusta giusta per lo strillo dell’edizione di domani.”

“Vale a dire?” chiese Juurakko.

“Miss Finlandia è incinta,” rivelò la Lemmetty.

“Per tutte le tette!” ruggì Juurakko con voce talmente tonante da far fremare l’aria di spavento. “E i giornali della concorrenza? Ce l’hanno anche loro?”

“Credo di no. È una nostra esclusiva,” lo tranquillizzò il caposervizio.

Juurakko annuì in silenzio allargando gli angoli della bocca. Gli zigomi si sollevarono scoprendo i denti. Gli spazi tra i molari rivelarono gli avanzi della brioche consumata a colazione, mostrando dei grumi chiari contro il fondo scuro dell’amalgama. Appallottolandoli tutti e infilzandoli all’amo, si sarebbe anche potuto pescare un’alborella.

“Ce l’hanno anche gli altri giornali” intervenni io. “La notizia di quella Miss l’ho già sentita.”

“E dove?” chiese Juurakko.

“Non lo so. Me l’ha detta un indovino cieco.”

“Ma di che cavolo vai cianciando?”

“In effetti, non so se lo sia davvero. Prima ha afferrato al volo i soldi che gli ho lanciato, e poi ha finto di non vederci più.”

Juurakko gettò una lunga occhiata verso di me. Poi, scuotendo la testa, guardò il caposervizio, il quale annuì. Quindi entrambi presero a fissare dapprima me e poi a scambiarsi delle occhiate.

“Se qualche cieco è al corrente della cosa, a noi cosa importa?” concluse Juurakko. “Mi metto subito in contatto con la produzione, gli dico di stampare qualche copia in più del solito. Ci vorranno più redattori per questo progetto. Dobbiamo procurarci ogni intervista possibile, tutto del suo passato, qualsiasi cazzata. E anche le dichiarazioni dei nonni felici. Hanno già comprato i sonagli per neonati? Per non dire di un’intervista al padre. Chi è il padre?”

“Non si sa ancora,” rispose la Lemmetty.

“Chi è che non lo sa? Noi o la Miss?”

“Nessuno.”

“Di bene in meglio” gongolò Juurakko. “Ce ne vorrebbero di Miss così. Il tipo di ragazza ideale per un giornale. Che si fa mettere incinta dal primo pifferaio di passaggio a caccia di tope.”

“Penso proprio che le toglieranno la corona,” osservò il caporedattore.

“Peccato,” si rammaricò Juurakko. “Una ragazza così in gamba. Intervistate anche il presidente della giuria. Costringetelo a dare sfogo alla sua indignazione fin quando avrà birra in corpo. E per domani allestite una linea telefonica diretta. Lasciamo che il Paese intero dica la sua.”

“Indovina come abbiamo avuto la notizia,” domandò il caposervizio.

“Non voglio tirare a indovinare, voglio sapere.”

“La Miss stessa ha telefonato a Lemmetty chiedendole quanto avrebbe pagato per l’esclusiva.”

“E noi ovviamente abbiamo pagato,” commentò Juurakko. “Quanto?”

“Meno che per le foto con le tette della principessa ereditaria.”

“Dannazione.” Juurakko scoppiò a ridere piegando la testa all’indietro. I grumi della brioche tennero rigorosamente le loro posizioni come partigiani.

“Quella ragazza non ha il minimo senso degli affari,” sottolineò il caposervizio.

“A noi non importa,” obiettò Juurakko. “Non siamo mica una scuola commerciale.”

“La ragazza ha voluto offrirla a noi questa primizia. Lemmetty deve averle fatto una buona impressione durante il tour delle Miss,” aggiunse il caporedattore.

La Lemmetty sorrise, ma nessuno se ne accorse perché continuava a tenere lo sguardo verso il basso. Le sue vene giugulari cominciarono a pulsare. La Lemmetty aveva superato la cinquantina. Un sacco di uomini l’avevano piantata in asso, scavandole al contempo dei solchi lungo il viso. L’ultimo a darsela a gambe era stato il suo cucciolone greco, il quale aveva apprezzato tutto ciò che c’era nel suo appartamento: dipinti, gioielli, stereo, tostapane, il timer e il barattolo degli spiccioli in cucina.

“Cosa hai fatto per ammaliare la Miss?” chiese Juurakko.

“E che ne so,” fece la Lemmetty.

Aveva una voce sottile, argento finemente forgiato.

“Deve aver visto qualcosa in te,” incalzò il caporedattore.

“Dice che sono un tipo un po’ materno. Non come quei falchi che le girano intorno.”

“Sei più unica che rara,” rimarcò Juurakko. “Se solo potessi, per la Festa dell’indipendenza ti conferirei la Croce di ferro di Cavaliere di prima classe, ornata con tutti quei maledetti ramoscelli e inghirlandata di peli di fica dorati.”

Finita la riunione la Lemmetty si rimise a raccattare le cartacce. Si chinava piegando le ginocchia come le signore di buona famiglia. Da bambina sua madre le aveva spiegato che bisogna far attenzione a non sporgere il sedere. Poi le aveva accomodato le trecce, e le aveva offerto un biscotto allo zenzero lodando il suo comportamento. Il giorno dopo era andata col padre all’ippodromo, e lì aveva smarrito il fermaglio per i capelli. Suo padre le aveva detto che sarebbero tornati a casa solo dopo averlo trovato. La ragazza era rimasta lì a cercarlo per diverse ore in mezzo alla ghiaia, piangendo senza sosta.

“Lascia stare,” le dissi. “Mica ti pagano per mettere a posto.”

“Perché quelli del turno di notte giocano sempre sulla mia scrivania?”

“Da qui si arriva prima al frigorifero. Tengono in fresco le pepsi. Prima di ogni mano le prendono e ci aggiungono qualcosa di alcolico.”

“E davvero bevono ogni notte?”

“A casa non possono permetterselo. Lì ad aspettarli ci sono mogli incazzate e marmocchi viziati. La foto delle nozze su uno scaffale della libreria, il servizio buono negli stipetti sopra la cucina e un quadro ad olio sopra il divano. In un ambiente così non si riesce a bere.”

“Come fanno quelle donne a sopportarli?” chiese la Lemmetty.

“E infatti non li sopportano. La moglie di Kössi ha già fatto le valigie tante di quelle volte. Le valigie del marito, si capisce. L’appartamento è della donna, hanno l’accordo prematrimoniale.”

“Sicuro che le valigie siano di Kössi?”

“Forse la moglie gli ha infilato tutto nei sacchetti di plastica.”

“Mi puoi aiutare con il servizio sulla miss?” domandò la Lemmetty. “Devo iniziare a fare quelle telefonate. Il che mi rompe non poco.”

“Non posso. Ho fissato un’intervista con un pilota di formula alle prime armi. Non vede l’ora che la sua faccia appaia sul giornale. Forse non ha ancora firmato il contratto con gli sponsor. Mi ha chiamato dicendomi che ha per me della roba che scotta. Lo sai che vuol dire. Che non ha un bel nulla.”

Il pilota e il manager l’attendevano davanti all’entrata del Bellevue. Indossavano abiti più costosi di quelli a cui erano abituati. Muovevano le spalle a scatti, spostavano in continuazione i piedi e cercavano ripetutamente il polso giusto per i polsini della camicia. Quando mi videro attraversare il parco vicino alla chiesa e discendere la collina, cominciarono a trafficare con le mani, strofinandole sulle gambe dei pantaloni. Così si preparavano alla stretta di mano.

“Sono io Tony Kaakko,” si presentò il pilota con una salda stretta di mano.

“Antti Suurnäkki,” ricambiai.

Non colsi il nome del manager, intento come ero a scrutargli attentamente il viso. Il labbro superiore ebbe una vibrazione, un lampo. La due giorni alcolica stava cercando una via di fuga.

Il manager ci tenne aperta la porta. Il pilota mi invitò ad entrare per primo.

“Il tavolo è riservato,” disse.

“Come?” chiese sorpreso il manager. “Per chi?”

“Per noi,” rispose il pilota.

“Oh, certo. Mi sono confuso,” si scusò il manager, con un tremolio talmente impercettibile che lo si poté notare solo socchiudendo gli occhi. Il cameriere ci accompagnò al tavolo avanzando con le spalle sbilanciate, nello stile effeminato di certi locali, mani come alucce verso l’esterno.

Nella sala sedevano solo uomini d’affari in abito scuro. Ero l’unico ad avere una giacca spaiata, dalla quale si sarebbe potuto capire che l’invitato ero io, se mai la cosa poteva interessare a qualcuno. La sala era piccola ma sembrava spaziosa in quanto ci si arrivava percorrendo un corridoio stretto. Un uomo d’affari parlava inglese con i suoi ospiti, spiegando tutto trafelato come pescare su un lago ghiacciato. Quando improvvisamente mi volsi verso di lui, si sentì in imbarazzo e ripeté un paio di volte eeh-eeh per poi continuare il racconto a voce più bassa.

In Finland we have…,” riattaccò, e poi qualcos’altro. I suoi ospiti guardavano nei piatti e continuavano a tranciare le bistecche col coltello.

L’uomo d’affari mi lanciò ancora un paio di occhiate mentre prendevamo posto a tavola. Forse cercava di capire fin dove arrivasse la sua voce. Ma quando la storia è noiosa, arriva dappertutto.

Il cameriere portò il menu e ci chiese cosa volessimo da bere. Il pilota ed io ordinammo acqua minerale. Il manager fece finta di pensarci su e poi ordinò una birra, L’oro della Lapponia.

“È un posto alla moda,” constatò il pilota.

“Vedremo alla fine se è modico” commentai.

Il pilota e il manager proruppero in una risata sforzata, nel caso del manager addirittura esagerata. Ridacchiò ancora un paio di volte, quando non era più il caso.

“È stato già in ferie?” mi chiese il pilota.

“No,” risposi.

Il giovane non sapeva come riprendere il discorso, aveva perso il filo di quanto aveva progettato. Rigirava tra le dita lo stelo del bicchiere guardando la sala come se ciò che succedeva intorno a lui fosse oltremodo interessante.

Il manager afferrò il suo bicchiere e mandò giù il primo sorso.

Antonio Parente e Nicola Rainò.