Johanna Sinisalo: Prima del tramonto non si può

I nostri "Insoliti Ignoti", testi ancora inediti in lingua italiana

“Ennen päivänlaskua ei voi”

Tammi 2000, pp. 268

Romanzo

Pluripremiato romanzo che esplora il tema dell’alterità sotto molti punti di vista, discute della paura dell’​altro ​sotto forma di xenofobia e omofobia, e s’interroga sulla validità del confine tra l’uomo e gli altri esseri viventi, dibattendo anche temi ecologici quali lo sfruttamento della natura da parte della “civiltà”, la prossimità dell’uomo alla natura e il ritorno alle radici.

Protagonista principale è Mikael, un giovane fotografo di moda che si prende cura di un peikko malato. La Sinisalo interrompe e integra più volte la narrazione con citazioni di opere di narrativa e saggistica (a volte reali a volte del tutto fittizie) per rendere più credibile l’esistenza di questo animale mitico, che lei fa risalire alla rarissima specie delle scimmie feline.

Usando vari brani della tradizione orale finlandese, la Sinisalo riesce a far rivivere non soltanto il Kalevala​, il poema nazionale finlandese, ma anche altri brani della poesia popolare epica. Parallelamente alla storia principale, troviamo anche quella di una filippina, Palomita, sposata con un finlandese che l’abusa sessualmente e la tiene prigioniera impedendole qualsiasi contatto col mondo esterno. Le storie si sovrappongono nel momento in cui Palomita aiuta Mikael a prendersi cura del peikko.

La Sinisalo affronta il tema dell’alterità sotto vari punti di vista (l’omosessualità di Mikael, la vita ai confini della società di Palomita, ecc.). Il fatto che la scrittrice, precedentemente, si sia mossa nel campo della fantascienza, ha spinto i critici a classificare il romanzo come un’opera, per l’appunto, fantascientifica (paragone non del tutto campato in aria se si pensa alle opere di Aldous Huxley, Ray Bradbury ecc.).

Sinisalo definisce il suo romanzo “un fantasy sociale speculativo”, enfatizzando che si tratta appunto di fantasy. ​ Prima del tramonto non si può è anche la dimostrazione di come spesso i romanzi con connotazioni e ambientazioni molto “specifiche” possono essere quelli più universali: il libro ha avuto un grande successo non soltanto in Finlandia, ma anche all’estero, essendo stato tradotto in quattordici lingue e premiato con il James Tiptree Jr. Literary Prize. (Viola Parente Čapková)

Johanna Sinisalo

(Sodankylä 1958 —)

È una della più importanti autrici di fantasy e fantascienza della Finlandia. Ha pubblicato decine di racconti in riviste e in varie antologie e ha vinto varie volte il prestigioso premio Atorox, che in Finlandia è assegnato annualmente al migliore racconto di fantascienza.

Il suo primo romanzo, ​Prima del tramonto non si può​, pubblicato nel 2000, ricevette il più importante premio letterario finlandese, il Finlandia-palkinto.

Del 2003 è Sankarit (“Eroi”, Tammi 2003)​, una sorta di trascrizione in spirito postmoderno del cosiddetto poema epico nazionale finlandese, il Kalevala, anche questo con un forte accento di critica sociale.

Johanna Sinisalo vive a Tampere; oltre alle opere letterarie si dedica alle sceneggiature televisive, all’insegnamento della scrittura creativa e alla pubblicità. Dopo Auringon ydin (“Il nucleo del sole​”, Teos 2013) la scrittrice ha da poco pubblicato il suo decimo romanzo (Vieraat, “Gli ospiti”) nel 2020 per l’editore Otava.

Prima del tramonto non si può

ANGELO

Sto cadendo in preda al panico. Il viso di Martes oscilla nella leggera nebbia alzatasi dopo quattro boccali di birra. La sua mano è sul tavolo, vicino alla mia, ne osservo la peluria scura sul dorso, le dita sensuali, le giunture ossute e le vene leggermente in rilievo. ​ La mia mano si muove verso quella di Martes, che si ritrae fulmineamente, come se le nostre braccia fossero collegate sotto il tavolo con un elastico. Come un gambero nella tana.

Lo guardo negli occhi. Sul suo viso compare un sorriso amichevole, aperto e comprensivo. Ha l’aria di un amante insaziabile e, allo stesso tempo, di un perfetto sconosciuto. I suoi occhi sono come le icone del computer, simboli inespressivi dietro ai quali si nasconde una quantità infinita di possibilità, ma soltanto per chi è capace di attivarle.

“Perché mi hai invitato a prendere una birra? Cos’è che volevi?”

Martes si appoggia alla spalliera della sedia. Imperturbabile. Del tutto indifferente.

“Parlare un po’.”

“Nient’altro?”

Martes mi guarda come se gli avessi rivelato di me qualcosa di nuovo, qualcosa di

sconveniente ma insignificante. Qualcosa di leggermente compromettente che però non influisce minimamente su un buon rapporto di lavoro. Come quando il deodorante ti pianta in asso.

“Ad essere sincero, devo dirti che tutto questo non fa per me.”

Il cuore mi inizia a battere freneticamente e di riflesso la lingua entra in funzione prima del cervello.

“Sei stato tu a cominciare.”

Quando da piccoli si faceva a botte in cortile e poi gli adulti cercavano il responsabile, questa era la cosa più importante. Chi aveva cominciato.

E Martes mi guarda come se fossi un irresponsabile mentre aggiungo:

“Non mi sarei mai messo in questa situazione… se tu non mi avessi fatto capire chiaramente di essere interessato. Te lo avevo detto che ci metto poco ad azzerare tutto. Se non ho un buon motivo per credere che anche l’altro sia interessato a me, non lascio mai che le cose vadano troppo in là. Niente, nemmeno un pensiero, per Dio.”

I ricordi mi affollano la mente mentre parlo con un tono di voce dal quale traspare troppo chiaramente la mia stizza. Ricordo la sensazione di stringere Martes tra le braccia, la sua erezione sotto il tessuto dei pantaloni quando, al buio della notte, ci appoggiammo al parapetto del ponte di Tammerkoski. Sento la sua bocca sulla mia, quel sapore di tabacco e Guinness, i suoi baffi che graffiano il mio labbro superiore, e mi sento mancare.

Martes si tasta cercando una sigaretta; ne trova una, se la ficca in bocca, l’accende con lo Zippo e l’aspira a lungo, soddisfatto.

“Non posso farci nulla se gli altri proiettano in me i loro sogni e desideri.”

Secondo lui non è accaduto nulla.

Secondo lui è tutto frutto della mia immaginazione.

Verso mezzanotte mi trascino barcollando verso casa, con passo incerto, sia per la troppa birra sia per la profonda ferita che mi porto dentro. La mia mente ubriaca la lecca come un gatto, la stuzzica come se fosse un dente dondolante, provocando ripetutamente un dolore sordo e piacevole. Penso alla frase sui miei desideri e sui miei sogni, che non vedranno la luce del giorno.

I lampioni per strada in balia del vento gelido. Quando svolto da piazza Pyynikki entrando nell’androne sono accompagnato da un codazzo di neve mista a pioggia e da foglie di tiglio ridotte ormai in poltiglia. Sento una conversazione dai toni accesi provenire dall’angolo del cortile.

Un’antipatica marmaglia è accampata vicino ai cassonetti della spazzatura; teppistelli con indosso jeans che pendono abbondantemente dietro e giacche a vento dai colori chiassosi che lasciano scoperta parte della schiena. Mi volgono le spalle e discutono con un tono di voce dal quale si capisce che si stanno caricando a vicenda prima di qualche discutibile bravata. Parlano di qualcosa che è rimasto dietro di loro, nell’ombra. Normalmente starei alla larga da tipacci come questi — mi fanno venire la pelle d’oca, e quando passo vicino a comitive simili ritiro la testa tra le spalle, sapendo che sarò fatto oggetto di qualche apprezzamento sarcastico — ma in questo momento, a causa di Martes, e poiché non m’importa più di niente e nelle vene mi scorre alcol oltre la norma, mi fermo alle loro spalle.

“Questo cortile è privato, è proprietà del condominio. Gli estranei qui non possono sostare.”

Un paio di teste si voltano, sogghignando, poi l’attenzione ritorna verso qualcosa ai loro piedi. “Hai paura che ti morda?”, chiede uno dei bulli all’amico. “Dagli un calcetto.”

“Non avete sentito? Il cortile è privato. Sparite.” Alzo la voce, mi sale il sangue agli occhi, nella mente mi balena il ricordo di certi ragazzi delle classi superiori stagliati intorno a me come torri. Avevano la stessa voce ironica e provocatoria, “hai paura che ti morda”, e tutto a un tratto mi ritrovavo con la bocca piena di neve farinosa.

“Dolcezza, vaffanculo”, ribatte teneramente uno di quei delinquenti. Lui sa che non posso dargli fastidio più del ronzio di una mosca nelle orecchie.

“Allora chiamo la polizia.”

“L’ho già chiamata io”, si ode una voce dietro di me. Alle mie spalle si materializza la robusta pensionata che abita al piano sopra al mio, che ha mansioni da portiera in cambio dell’affitto. I ragazzi alzano le spalle, si aggiustano nervosamente i giubbotti di pelle, sputano a terra con spacconeria e si allontanano senza fretta, come se non fosse successo niente. Procedono verso l’androne con andatura spavalda e bestemmiando virilmente. L’ultimo di loro ci lancia contro un mozzicone acceso, un vero razzo incandescente. Non appena arrivati in strada, li sentiamo correre via in preda al panico.

La signora tira un respiro di sollievo.

“C’hanno creduto.”

“Sta arrivando la polizia?”

“Macché. Mica possiamo disturbarli per sciocchezze del genere. Io stavo soltanto andando al barbecue.”

Per un istante l’adrenalina mi ha rischiarato la mente, ma adesso che frugo in cerca delle chiavi sento le dita goffe come salsicce. La signora si avvia verso l’androne; proprio quello che mi ci vuole perché, anche se intontito dalla sbornia, sono in preda a una curiosità irrefrenabile. Aspetto che scompaia nel portone e vado a dare un’occhiata nell’ombra oltre i cassonetti della spazzatura.

Un ragazzino dorme sull’asfalto del cortile, accanto ai contenitori. A stento si riesce a distinguere la sua sagoma nera dall’ombra.

Mi avvicino, allungo la mano. Evidentemente quella figura rannicchiata sente i miei passi e per un attimo alza la testa, apre gli occhi e io mi rendo finalmente conto di cosa sia.

È quanto di più bello io abbia mai visto.

Immediatamente so di volerlo. (pp. 8-11)

ANGELO

Di notte mi sveglio.

È seduto sullo schienale del divano e mi guarda.

Il suo profilo nero come la notte risalta sullo sfondo più chiaro e io capisco pienamente, con bruciante sofferenza, di essere alla sua mercé.

I suoi occhi, gli occhi di un animale notturno.

Con quegli occhi lui mi vede chiaramente, nitidamente; nonostante il buio, riesce a cogliere ogni battito delle palpebre, ogni impercettibile movimento degli angoli della bocca, mentre io riesco soltanto a distinguere quei contorni nerissimi. (p. 105)

Hiidenkiuas (tumulo), Turun museokeskus

ANGELO

Pessi rimuove i cubi della piramide e li risistema in un ordine leggermente diverso. Sento la sua voce profonda, flebile, quasi impercettibile. Fa le fusa. È contento. Provo una sensazione di arsura. La forma della piramide ha un qualcosa che mi turba; mi balena un ricordo. Con uno scatto mi avvicino agli scaffali. I libri di mio fratello sono tutti lì in un angolo, coperti quasi completamente da una grande varietà di libri nuovi e usati che trattano di animali selvatici. Decine di libri raramente sfogliati, ma dai quali non sono mai riuscito a separarmi.

Trovato. ​ Monumenti archeologici finlandesi di Eero Ojanen. Sfoglio le foto in appendice ed eccola qua. La dicitura riporta: “Corona di Salo”, ma io so bene cosa si nasconde dietro questo nome ingannevole.

Il tumulo di Hiisi.

La maggior parte degli oltre 3000 tumuli che si trovano in Finlandia risalgono all’età del bronzo, ma ci sono anche altri cumuli di pietre della cui funzione non si è ancora certi, vale a dire le cosiddette rovine lapponi e i santuari giganti. Secondo alcune teorie queste costruzioni servivano a marcare il territorio.

Quando si parla delle rovine lapponi, viene usata anche l’espressione “tumulo vociante”, e in alcune leggende popolari si menziona un “popolo vociante” che abitava a quell’epoca i boschi finlandesi. In base a certi racconti, i tonttu e le altre creature del bosco erano soliti giocare su quei tumuli, e perciò da essi si levavano strane voci.

Le rovine lapponi potevano essere anche un sito sacrificale, in quanto sui tumuli e nelle loro vicinanze sono state spesso trovate ossa di animali selvatici.

Sia per la loro forma, sia per i ritrovamenti di ossa, queste rovine ricordano anche i cumuli di pietre idolatriche della Lapponia, di cui anticamente si parlava come delle pietre idolatriche degli Stalli.

Ossa animali?

E allora ditemi, libri cari, sono state forse trovate sui tumuli o nelle loro vicinanze ossa di renne selvatiche, di alci, di volpi, di ghiottoni? Oppure ossa di lupi, di orsi, o del delicato scheletro delle linci?

Ditemi anche, libri miei cari — invece di tacere — è stata forse rinvenuta una quantità sorprendente di ossa di questi animali, le cui carcasse si trovano nella natura soltanto rarissimamente… di ossa di peikko? (pp. 114-5)

ANGELO

Non vorrei, ma devo.

Porto a spasso Pessi nella carrozzina che ho preso in prestito dal nostro pianerottolo; nessuno ne avrà bisogno, adesso è notte. L’ho coperto con un plaid in modo da non suscitare inutile meraviglia nei passanti. Pessi drizza le orecchie e le sue narici fremono per l’abbondanza di odori della città.

Sul margine del bosco che da Pyynikki porta a Pirkkala libero Pessi dal plaid. Lo sciolgo anche dal collare e dalle cinghie che lo tenevano legato al passeggino. Se ne sta rannicchiato lì, tutto nudo, nero e tremante; un fiocco di neve solitario discende sulla sua criniera nera e subito si scioglie in una lacrima.

“Va’”, gli bisbiglio. “Va’.”

Pessi trema ancora più di prima; me ne accorgo quando lo sollevo per adagiarlo sulla neve. Giro il passeggino e ritorno in città cercando di non voltarmi.

I miei passi scricchiolano desolatamente sul sentiero innevato. Tutto a un tratto a questo crepitio si aggiunge un altro rumore, gli scrocchi rabbiosi degli artigli, e prima di fare in tempo a girarmi, mi sento afferrare la gamba destra — come da una tigre.

Pessi vi si è aggrappato con tutt’e quattro le zampe; solleva lo sguardo verso di me

fissandomi negli occhi così intensamente che me ne sento colpito in pieno viso. Dalla gola gli esce un flebile miagolio. Trema a tal punto che mi trasmette le sue vibrazioni.

Non supererà l’inverno. È nudo, e sono stato io a spogliarlo. (p. 136)

ANGELO

Giunti all’atelier, prendo in braccio Pessi e gli infilo i jeans Stalker sulle zampe posteriori, in un sol colpo, perché so che questo è l’unico tentativo a mia disposizione. Se gli venisse in mente di opporre resistenza con gli artigli, non riuscirei ad infilarglieli, li ridurrebbe a brandelli. La taglia per bambini di 110 cm. gli va a meraviglia. Prima che Pessi si accorga che l’ho fregato, riesco a chiudere la lampo e il bottone metallico e a fargli uscire la coda dal taglio che ho fatto apposta sul didietro dei pantaloni. Poi metto giù Pessi — il quale si è trasformato in una pallina impazzita che rimbalza fischiando e ruotando gli artigli affilati come rasoi — lo getto verso il fondale e faccio partire il melodioso ronzio della macchina fotografica.

Pessi odia gli Stalker a tal punto che non perde del tutto il controllo; ma rimane proprio lì dove deve, contro il fondale, alla luce delle lampade, nel campo dell’inquadratura. Volteggia e piroetta cercando di liberarsi dalla camicia di forza indaco che gli imprigiona le zampe posteriori. Sebbene le lampade fotografiche debbano provocare un’indiscutibile pena agli occhi di questo animale notturno, quello che a Pessi interessa più di tutto continua ad essere la sua lotta con i jeans. Fa dei balzi di un metro con le sue zampe muscolose ed elastiche, si contorce come un grottesco ballerino di go­go, si avvita sulla schiena come in un numero di break­dance e cerca di strappare i jeans con gli artigli delle zampe anteriori. Ma il denim tiene, per il momento, e Pessi si drizza su due zampe, tutto teso, cercando di strappare i passanti dei pantaloni; quasi chiudo gli occhi per vedere la perfetta inquadratura che otterrò. Pessi è a testa ingiù, con la criniera che tocca il fondo bianco del pavimento; solleva il sedere, incoronato dalla coda guizzante che lui agita come una frusta per la disperazione, e con la testa fra le gambe ruggisce verso la macchina fotografica. Risuonano gli scatti mentre guizza continuamente come una molla variopinta, azzurra e nera come il carbone, sibila, si contorce, si avvita nei balzi; e tutta questa scena è registrata sulla pellicola, due fotogrammi al secondo, quasi come se vi venisse impressa dalla stessa scintillante energia di Pessi.

Quando finalmente il tessuto cede, provo anch’io un senso di sollievo: alla comparsa della prima scucitura sul lato della coscia, proprio lì dove per Pessi è più facile arrivare con gli artigli, mi sento come se potessi finalmente respirare di nuovo dopo una lunga apnea; poi vedo soltanto una pioggia di brandelli di tessuto azzurro e lui al centro che ansima e poi, in un sol balzo, sfugge alla luce dei riflettori. Salta verso di me digrignando i denti, con gli occhi fiammeggianti e mostrando gli artigli; ma quando sollevo la mano, si ricorda del pericolo, si ricorda del giornale arrotolato e, piegando la schiena, si rifugia di corsa nell’angolo. Riavvolgo il rullino, lo tolgo dalla macchina e lo stringo nella palma della mano; nell’angolo in ombra riesco a distinguere soltanto la coda di Pessi, che si muove, si agita e sibila come una frusta nervosa. (pp. 144-5)

DOTTOR UOMO RAGNO

Il suo peikko è come un pezzo di notte che qualcuno ha strappato dal paesaggio e ha portato nella stanza. È una scheggia di oscurità ventosa, un angelo nero, uno spirito della natura.

Si può domare l’oscurità?

Forse sì, quando all’inizio è molto, molto giovane, inerme quanto basta, sufficientemente gracile…

Un cucciolo della notte. (p. 196)

ANGELO

All’ombra di un abete, tra i crepacci rocciosi coperti di muschio c’è una fenditura somigliante a una bocca stretta e nera.

Il sole si è levato dietro il bosco, i raggi obliqui filtrano tra i rami formando delle strisce nebbiose e gialle che disegnano macchie incandescenti sul muschio.

Dalla roccia si staccano silenziose due ombre che scivolano inosservate dal buio verso la luce. Procedono verso di noi annusandoci, e il loro odore animale è come quello di Pessi, ma più selvatico, più penetrante, più muschioso; uno di loro allunga la zampa artigliata e io rimango paralizzato, poiché quelle lame mi potrebbero sventrare in un sol colpo. Ma la zampa non ha intenzione di ridurmi a brandelli; si infila soltanto nella tasca del cappotto e quelle dita flessuose, destre e sensibili afferrano il mio accendino color lilla.

Quando il peikko maneggia l’accendino mi è chiaro che non è la prima volta che lo usa.

I raggi del sole, come fossero un liquido caldo, iniziano ad inondare lo spiazzo. Le pupille dei peikko si restringono al punto da risultare inesistenti, e allora gli hiisi si girano e scompaiono nelle fauci della grotta. Un maschio adulto agita la canna del fucile con un movimento appena appena accennato, e io capisco.

Pessi è venuto vicino a me, scodinzola, agita velocemente la coda; alza lo sguardo verso di me e aspetta.

In lontananza si ode il verso di un cuculo.

Prendo Pessi per mano ed entro nella grotta. FINE (p. 268)

Antonio Parente e Nicola Rainò.

(I dipinti delle illustrazioni, a eccezione del Hiidenkiuas, sono di Hugo Simberg)